Cinque ritratti dalla tendopoli di Manduria
Fabio Poletti racconta sulla Stampa le storie dei migranti raccolti nel centro di accoglienza temporanea vicino Taranto
Fabio Poletti è un inviato della Stampa ed è stato al centro di accoglienza temporanea di Manduria per realizzare un reportage, raccontando la storia di alcuni delle centinaia di migranti ospitati nel campo.
Arrivi programmati 827. Partenze volontarie più o meno 400 anche oggi, che la contabilità del va e vieni dal centro di accoglienza temporanea di Manduria la sa nessuno. «Chiamiamolo centro di fuga permanente che si fa prima», mastica rabbia e pioggia Annamaria Iunco, abitante di Manduria, una delle vedette pugliesi che guardano a vista il campo. Lo guardano e possono fare niente. «Guardate guardate…», urla ai poliziotti di quella mezza dozzina di profughi clandestini e migranti che dopo aver saltato la rete saltano pure il muro del recinto diroccato. Lunedì erano scappati in 180. Ieri 80 hanno chiesto il diritto d’asilo. Più frequenti quelli che tirano fuori il pollice e chiedono un passaggio. È solo l’ultimo atto di ottimismo che qui li carica nessuno e in paese già fanno le ronde come su in «Padania», dove i migranti passano e non si fermano per andare verso l’Europa che li aspetta.
Hichem il dottorando: “Sono qui per studiare”
Sono solo uscito a fumare una sigaretta, poi ritorno dentro…», giura Hichem Chini, tunisino del sud, doppio salto della rete del campo di Manduria e via per i campi. Come tutti finisce in stazione ad Oria, sette chilometri a piedi passando davanti alla contrada Tripoli che sembra una beffa geografica. «Sono scappato da Ben Alì e voglio fermarmi in Italia. Voglio finire il dottorato di psicologia. Sono un profugo politico in cerca di asilo», dice succhiando la Marlboro presa chissà dove. A Lampedusa dice di essere arrivato come tutti in barcone dieci giorni fa. In questo campo dove è più difficile entrare che uscire, lo hanno portato domenica scorsa. Il giubbotto blu che ha indosso ha visto tempi migliori. «Non avevo ninte per cambiarmi. Al campo non mi hanno dato niente. Solo da mangiare e da bere…», racconta questo profugo, un puntino nella marea che si vede lungo la strada.I poliziotti non ci fanno più nemmeno caso. I vigili del fuoco tirano su tende e alloggi di fortuna perchè non è mica una fortuna essere finiti in questo campo che sono cento ettari di fango. Perché peggio della condizione del clandestino c’è solo quella del clandestino sotto la pioggia che batte furiosa. Qualcuno ha le infradito. Hichem ha un paio di scarpe sfondate che hanno visto il peggio che c’è. «Io non voglio andare in Francia. Non voglio scappare per l’Europa. Voglio solo fuggire da Ben Alì e non tornare mai più indietro».
Al fotografo chiede un po’ di soldi. Allo Stato italiano un passaporto in regola, un visto che non lo faccia tremare e se possibile un posto dove finire gli studi. «Io non sono qui per rubare il lavoro a nessuno, sono solo scappato dal mio Paese perché non si poteva vivere». Dei possibili rimpatri forzati sa niente. Dei soldi che la Comunità europea potrebbe elargire insieme a un biglietto di solo ritorno sa meno di niente. Hichem è solo uno degli ottanta tunisini che è arrivato e non vuole andarsene più. I suoi connazionali salgono sui treni con direzione Nord. Alle 23 c’è il diretto per Roma. «Ma io non me ne vado. Sono solo qui a salutare gli amici poi torno al campo. Ho già fatto domanda per avere lo status di rifugiato», dice inseguendo quella che ora sembra una chimera, volubile come il fumo della sua sigaretta.