Il grande libro del rock (e non solo) – 25 marzo
Le storie del rock di oggi raccontate da Massimo Cotto
di Massimo Cotto
Nessun inizio d’anno da festeggiare / nessun dolcetto a forma di cuore ricoperto di cioccolato da dare via
I Just Called To Say I Love You, Stevie Wonder
1985 – con I Just Called To Say I Love You Stevie Wonder vince l’Oscar (primo cantante non vedente ad aggiudicarselo) e lo dedica a Nelson Mandela. Il giorno seguente i dischi di Stevie Wonder vengono immediatamente banditi dalla South Africa Broadcasting Corporation. I tempi non erano ancora maturi per vincere l’apartheid. Fu molto criticata, all’epoca, I Just Called To Say I Love You, per l’uso di sintetizzatori e di drum machine, elementi poco graditi dai puristi del soul e della black music. Con il passare del tempo, è diventato un successo mostruoso amato da tutti. Commovente la versione che Stevie Wonder improvvisò il 27 giugno 2009, due giorni dopo la morte di Michael Jackson, che era grande amico di Stevie. In quell’occasione, Wonder cambiò il testo del ritornello. Non più «I just called to say I love you / I just called to say how much I care» ma «I just called to say I love you / Michael knows I’m here and I love you».
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Ho visto i migliori della mia generazione giocare a flipper / simili a bambole cinesi
Wasteland, Dan Bern
1957 – viene intentato dalle autorità un processo per oscenità nei confronti dell’Urlo di Allen Ginsberg, per via dei molti riferimenti alle droghe e alla libertà sessuale, sia etero sia omo. Un verso in particolare fu poco gradito, quello che diceva: «Si lasciavano inculare da santi motociclisti e strillavano di gioia». A rischiare non era tanto Ginsberg, ma Lawrence Ferlinghetti, editore e proprietario di una bellissima libreria a San Francisco che per anni fu punto di ritrovo fisso della controcultura e del movimento hippie. Grazie anche a un pool formato da nove esperti di letteratura, Ferlinghetti fu assolto e quindi scarcerato. Dopo la pubblicità ottenuta dal processo, l’Urlo divenne a tutti gli effetti uno dei vertici della Beat Generation, insieme a On The Road di Kerouac e a Il pasto nudo di William Burroughs.
L’incipit, soprattutto, ebbe un effetto devastante: «Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate, nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa». Divenne lo spunto per molte opere. Anche per canzoni. Ne cito alcune che citano esplicitamente i versi dell’Urlo: Machinehead dei Bush, Werewolves Of London di Warren Zevon, I Should Be Allowed To Think dei They Might Be Giants, I Saw The Best Minds Of My Generation Rock dei Fugs, Spell di Patti Smith e la meravigliosa Wasteland di Dan Bern. Non fa parte della lista, stranamente, Dio è morto, perché Guccini ha categoricamente smentito di aver preso spunto da Ginsberg per il suo inno, nonostante abbia lo stesso incipit.
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E andrò in alto come un aquilone, per allora / mi manca la terra, così tanto, mi manca mia moglie
Rocket Man, Elton John
1947 – nasce a Pinner, nel Middlesex, Reginald Kenneth Dwight, ovvero Elton John, senza ombra di dubbio uno dei più grandi talenti melodici del pop di tutti i tempi. Grazie anche a un sodalizio perfetto con Bernie Taupin (capace di tradurre in parole quello che Elton descriveva in musica), ha scritto in quarantun anni di carriera decine di canzoni indimenticabili, di quelle che ti si attaccano addosso anche quando non vorresti e che ti ritrovi a cantare, sotto la doccia o dopo aver fatto la barba, flirtando a volte con il soul della Motown o il blues di Philadelphia, altre volte con l’honky tonk e il gospel, ma sempre riconducendo tutto nelle pareti del formato radiofonico e vendendo oltre trecentocinquanta milioni di dischi nel mondo. Eccessivo negli atteggiamenti, glamourous negli abiti (la sobrietà è sempre stata bandita dal suo guardaroba), buffo nei parrucchini (in questo è secondo solo a Lucio Dalla), pacchiano nei travestimenti (lo ricordate vestito da Paperino?), impulsivo nelle decisioni (come quando sposò la sua segretaria, lui dichiaratamente omosessuale), debole in certe occasioni (è stato a lungo preda della cocaina), Elton John ritrova se stesso davanti a un pianoforte. I puristi della musica – vil razza dannata – commettono con lui l’errore più grande e più stupido: pensare che non ci sia qualità dietro a un successo di così vaste dimensioni. Invece, a volte, c’è bella musica anche nelle classifiche pop.
Lo stupore della notte / spalancata sul mar / ci sorprese che eravamo sconosciuti / io e te
Se telefonando, Mina
1940 – nasce a Busto Arsizio Mina, immensa, non c’è che dire. La voce più grande, il talento più grande. Insomma, la più grande (Louis Armstrong la definì la miglior cantante bianca al mondo). Anche per questo è lecito attendersi da lei sempre qualcosa di più: ad esempio, una canzone che rimanga nel libro della musica, magari nello stesso capitolo dove si trovano quelle che hanno caratterizzato la fase pre-esilio: E se domani, Se telefonando, Le mille bolle blu, Tintarella di luna, Amor mio e cento altre. Da quando vive a Lugano, invece, solo grandissime prove di bravura, accompagnate talvolta da successi commerciali strabilianti (l’album Mina Celentano che ha venduto un milione e seicentomila copie), ma niente che rimanga nell’immaginario collettivo. Colpa, forse, anche di una sempre più drammatica carenza di autori. Cresciuta a Cremona, e per questo chiamata «La tigre di Cremona» da Natalia Aspesi, Mina faceva parte, come ben sapete, di uno zoo bizzarro e forse anche un po’ maschilista, perché in quelle gabbie erano rinchiuse solo voci femminili: la pantera di Goro (Milva), l’aquila di Ligonchio (Iva Zanicchi), l’usignolo di Cavriago (Oriettona Berti) e poi, in tempi più recenti, il pulcino di Gabbro (Nada). Ma a sbranare tutti, c’era sempre lei.
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Prima del nostro incontro, la vita era così triste / ma il tuo amore è la chiave per portar pace nella mia mente
(You Make Me Feel Like A) Natural Woman, Aretha Franklin
1942 – nasce Aretha Franklin, la regina del soul, la perfetta fusione (mai così perfetta in un’artista donna) tra il gospel, il soul, il rhythm and blues e il pop. Mai nessuna prima di lei aveva saputo incarnare le esigenze dell’alta classifica senza sacrificare la negritudine vera, quella che combina il sacro e il profano, la fisicità e la spiritualità. La donna che prese una canzone di Otis Redding e la fece sua a tal punto che Otis, al festival di Monterey del 1967, tra il serio e il faceto, la presentò dicendo: «Questa è Respect, una canzone che mi è stata rubata da una ragazza». E tutti sapevano benissimo chi fosse quella ragazza. Era la ragazza che aveva preso (You Make Me Feel Like A) Natural Woman, una bella canzone pop di Carole King e l’aveva trasformata in un inno black da far paura anche all’inferno. È stata la prima artista donna a essere introdotta nella Rock and Roll Hall of Fame, l’unica a cantare alla cerimonia inaugurale di Barack Obama, la sola ad aver vinto diciotto Grammy, la prima cantante di colore a essere immortalata sulla copertina di «Time». E per finire, la più grande cantante dell’era rock, secondo «Rolling Stone», davanti a Ray Charles, Elvis Presley, Sam Cooke e John Lennon. Mica Marco Carta.