Il “fondo d’addio” di Flavia Perina
Che non è un fondo d'addio, scrive l'ormai ex direttrice del Secolo
Questo è l’editoriale con cui Flavia Perina saluta i lettori del Secolo, dopo la sua “prepotente” destituzione annunciata ieri.
“D’altro canto”: è il titolo della rubrica settimanale che il nuovo Consiglio di amministrazione del Secolo mi ha offerto «per consentire anche argomenti in dissenso rispetto alla linea editoriale». L’offerta mi è stata fatta nella lettera in cui Giuseppe Valentino, presidente del nuovo Cda, mi ha comunicato ieri l’«esonero dalle funzioni di direttore politico con decorrenza immediata». L’idea di riservare un angolo della foliazione alle “quote di eresia” compatibili con la “linea ufficiale” (quale?), dà la misura della concezione che si ha del giornalismo e di questo giornale, che da tre anni rappresenta tutto intero una «eresia»: l’eresia di una destra libera dal vincolo autoritario di ogni padre-padrone, capace di squadernare la sua storia, la sua vera natura e le sue idee nella loro nuda verità, senza le circonlocuzioni e i giri di parole imposte dal politicamente corretto o dal politicamente conveniente.
Sulle donne, sull’integrazione, sui rapporti politici tra il Pdl e la Lega, sulle relazioni col mondo musulmano, sulla nostra storia, sui suoi molti errori – il ’68, la campagna per la pena di morte, la subalternità a una cultura regressiva e reazionaria – e sulle sue grandissime luci, la vivacità del mondo giovanile, i fermenti del nostro underground, i nostri libri, concerti, personaggi, abbiamo scritto e ragionato in totale libertà per tre-quattro anni. Mi viene da ridere pensando che qualcuno immagini di contenere questo fiume dentro le due colonne di una rubrica, circondata magari dall’elogio di Gheddafi o dalla difesa delle povere Olgettine. Un collega di un grande quotidiano, qualche giorno fa mi ha detto al telefono: «Ma ti rendi conto che una cosa così, poter dirigere, organizzare, ideare un quotidiano nella più assoluta autonomia, è una esperienza irripetibile?». Gli ho risposto che ne ero pienamente consapevole, e che ne ero orgogliosa anche perché nessuno ci aveva “regalato” questa opportunità ma la avevamo costruita con grandissima fatica: il gruppo che ha dato vita alla “Taz”, alla “zona temporaneamente autonoma” di via della Scrofa 43, è molto più vasto della redazione e dello stesso “giro” dei collaboratori, è un collettivo di suggestioni, spunti culturali, curiosità per “gli altri” che ha messo insieme le mille sensibilità della destra, e non solo.
È grottesca la contestazione secondo cui il Secolo avrebbe negato spazio a una parte significativa della ex An: non ricordo una circostanza in cui articoli di parlamentari o dirigenti di quell’area non siano stati pubblicati e valorizzati. L’ultimo episodio che mi viene in mente è un lungo pezzo politico di Fabio Rampelli, pubblicato in prima pagina e poi seguito, il giorno successivo, da un esteso approfondimento sui temi che proponeva (le “contaminazioni” degli anni ’80). E allora, eccomi qui a tirare le somme.
Nel linguaggio giornalistico questo dovrebbe essere il famoso “fondo di addio”, ma la definizione non si addice affatto al mio stato d’animo: non ho la minima intenzione di dare l’addio al progetto di “un’altra destra”, anche giornalistica, e tantomeno lo farò per cedere il passo alle confuse manovre di una proprietà che non ha avuto nemmeno il coraggio di un colloquio faccia a faccia. Tra le tante cose che mi hanno stupito ieri c’è il silenzio dei molti amici della ex An che so – perché me lo hanno detto privatamente – che sono sconcertati da questo atto di prepotenza, anche perché pur restando nel Pdl hanno condiviso tacitamente molte delle posizioni che il Secolo ha assunto in questi anni. È la controprova del clima di intimidazione e illiberalità vigente in uno schieramento dove risulta inammissibile persino la solidarietà personale al “nemico”. Così è stato ridotto il nostro mondo, e mi rattrista davvero il raffronto tra il coraggio di cui eravamo tutti orgogliosi ieri, i tanti discorsi sullo “stile”, sulla sfida alle piccole convenienze in nome di valori come l’amicizia, e questa desolante miseria.
Giuravamo che non saremmo morti democristiani ma c’è qualcuno che è già morto berlusconiano, anche nell’estetica tapina che ho toccato con mano in queste ore: a cominciare dall’atto vergognoso della rimozione di un direttore affidata a una segretaria, senza nemmeno la forza d’animo di metterci la faccia. Ma tiriamoci su. Il messaggio più allegro è di una collega (di sinistra) che scrive: «per una volta si può dire: molti nemici molto onore». Il più surreale è di Caterpillar, che mi ha proposto come direttore del Tg2. I più appassionati sono quelli su Facebook, dove ho scoperto di avere dei veri “groupie”. Il più vergognoso è quello di Giancarlo Mazzuca, un collega, responsabile dell’ufficio comunicazione del gruppo Pdl alla Camera che si picca di ricordare che «da che mondo è mondo i direttori hanno sempre saputo di poter essere cacciati». E, al di là della ovvia riconoscenza per Gianfranco Fini, che mi indicò per la direzione e ieri mi ha dato la sua solidarietà in una affettuosa telefonata, e per tutti gli amici di Futuro e libertà che hanno detto e scritto cose che mi inorgogliscono, sono contenta delle molte belle parole spese da esponenti della sinistra che danno atto a questo Secolo di «aver cambiato fisionomia, assumendo i caratteri di un giornale di destra aperto e curioso verso altre culture politiche» e uscendo dallo stereotipo dell’organo di partito capace solo «di eccitare con ogni mezzo le curve e le tifoserie».
Per il resto, appuntamento a domani: su Facebook, su un blog, su un altro giornale o forse anche qui, con la mia nuova rubrica “D’altro canto”. Mica siamo in Libia o nella Bulgaria di Zivkov: mettere a tacere le idee è più difficile di quanto qualcuno immagini e l’esperienza di questo giornale non è qualcosa che si possa liquidare con otto righe dattiloscritte.