«Potevi vedere i proiettili colpire la sabbia»
I quattro giornalisti del New York Times catturati in Libia e liberati ieri hanno raccontato la loro storia
Ieri il governo libico ha liberato quattro giornalisti del New York Times, sei giorni dopo averli catturati mentre questi si trovavano nella città di Ajdabiya. I quattro sono stati consegnati ad alcuni diplomatici turchi e nel pomeriggio di ieri sono arrivati in Tunisia: lì, una volta al sicuro, hanno telefonato negli Stati Uniti, hanno parlato con i loro colleghi e hanno raccontato la loro storia. Sono Anthony Shadid, capo dell’ufficio del New York Times a Beirut, vincitore di due premi Pulitzer; due fotografi, Tyler Hicks e Lynsey Addario; Stephen Farrell, videoreporter, che nel 2009 era stato catturato dai talebani in Afghanistan per essere poi salvato dai militari britannici.
Come molti altri giornalisti occidentali, i quattro erano entrati dall’Egitto in una regione della Libia occupata dai ribelli, senza avere un visto. Martedì scorso si erano resi conto che gli scontri ad Ajdabiya si erano fatti troppo intensi e pericolosi per permettere loro di continuare a seguirli da lì, e hanno deciso di allontanarsi. Il loro autista, però, li ha inavvertitamente condotti verso un posto di blocco presidiato uomini del regime. Quando si sono resi conto di essere nei guai era già troppo tardi.
«Gridavo all’autista, “Tira dritto! Non ti fermare! Non ti fermare!”», ha detto Tyler Hicks. «Sapevo che se ci avessero fermati non sarebbe finita bene». Dell’autista, Mohamed Shaglouf, non si hanno notizie. Se avesse tirato dritto i soldati avrebbero sparato contro il veicolo ma il gruppo avrebbe avuto la possibilità di allontanarsi in fretta. Invece l’autista si ferma. Appena i quattro scendono dall’auto, però, i ribelli attaccano il checkpoint. «Potevi vedere i proiettili colpire la sabbia», detto Shadid.
I quattro scappano e si rifugiano dietro una piccola costruzione per coprirsi dai colpi ma i soldati li raggiungono. Gli fanno svuotare le tasche, li fanno stendere a terra e lì i quattro giornalisti pensano di essere sul punto di morire. «Ho sentito uno di loro dire all’altro, in arabo: sparategli. Tutti abbiamo pensato che fosse finita». Lì interviene un altro soldato: «No, sono americani. Non gli possiamo sparare». E quindi li immobilizzano e gli legano le mani, con le prime cose che si trovano davanti: un cavo elettrico, una corda, una sciarpa. Uno toglie le scarpe a Lynsey Addario, sfila i lacci e con quelli le lega le caviglie. Un altro le da un pugno in faccia e si mette a ridere. «Ho iniziato a piangere, e più io piangevo più lui rideva». Un soldato le afferra il seno, e questo genere di molestie si ripeterà più volte nelle successive 48 ore.
I soldati li riportano ad Ajdabiya, dove intanto gli scontri erano cessati. Uno minaccia Hicks di decapitarlo. Un altro accarezza la testa di Linsey Addario dicendole «tu morirai stasera, tu morirai stasera». Poi si rimettono in marcia. La macchina si ferma più volte. La prima notte la passano nel retro del furgone. La seconda notte in una cella con materassi sporchi per terra, una bottiglia per fare pipì e un bidone di acqua da bere. Il terzo giorno erano ancora in giro, stavolta verso una pista per aerei di cui avevano sentito parlare i soldati. Arrivano all’aereo, i soldati li immobilizzano con delle manette di plastica. «Anthony comincia a urlare e chiedere aiuto: le manette erano troppo strette e non si sentiva più le mani», dice Hicks. I soldati gliele allentano, mostrando insolita pietà.
Nel frattempo si è fatto giovedì: il New York Times denuncia la scomparsa dei quattro, i funzionari del governo dicono che se questi sono stati catturati dai loro uomini, li troveranno e li libereranno sani e salvi. I quattro si spostano a Tripoli, in aereo, e vengono consegnati a funzionari del ministero della Difesa libico. Che a loro volta li trasferiscono in una casa, dove sono trattati bene e riescono a fare una breve telefonata ciascuno e rassicurare i loro cari.
Il New York Times aveva messo in piedi delle ricerche, intanto, setacciando ospedali e cimiteri, consultando fonti, trovando molte informazioni e condividendole coi diplomatici americani. Cominciano allora i negoziati, ma sono complicati e frustranti: li conduce un diplomatico del dipartimento di Stato, che riceve le continue e mutevoli richieste del governo libico. Anche perché nel frattempo – è sabato – cominciano i bombardamenti alleati su Tripoli e sulla Libia. Questo rallenta ulteriormente i negoziati: alla fine il governo accetta la mediazione dell’ambasciata turca e promette di rilasciare i giornalisti domenica. I bombardamenti fanno saltare la scadenza, e arriviamo a ieri.
I quattro oggi sono in Tunisia e stanno bene. Altri tredici giornalisti però sono ancora dispersi in Libia. Tra questi, quattro sono di Al Jazeera: ieri i loro parenti e amici hanno manifestato davanti alle ambasciate libiche di Mauritania e Tunisia, le loro nazioni d’origine. Due sono di AFP, uno di Getty Images. Sei sono libici, di loro non si sa più nulla. Altri sono morti. Un giornalista libico è stato ucciso sabato a Bengasi. Un cameramen di Al Jazeera era stato ucciso il 12 marzo: il primo giornalista a morire durante la guerra in Libia.
foto: Paul Conroy / Reuters