L’opera d’arte nell’era delle motoseghe
Una galleria d'arte di Detroit si è presa un graffito di Banksy staccando il muro su cui era stato disegnato
Il dibattito sull’impazzimento del mondo dell’arte ormai è diventato parte dello stesso impazzimento e non è escluso che qualcuno presto farà in modo di farlo diventare a sua volta un’opera d’arte. Le trovate di comunicazione, le invenzioni estemporanee, le cifre gonfiate da un sistema con logiche inafferrabili, prevalgono da tempo su un’idea di arte come eravamo abituati a pensarla: e tutto questo è probabilmente arte, e bisogna quindi trattenere i moralismi e limitarsi a osservare e provare a capire gli sviluppi, che spesso generano storie affascinanti e dibattiti dalle numerose contraddizioni e dilemmi.
Uno dei maggiori salti di qualità di questa rincorsa all’invenzione negli ultimi anni è stata la costruzione dell’artista noto come Banksy, divenuta forse la maggior celebrità del mondo dell’arte grazie al suo essere personalmente ignoto. Poi si dà il caso che faccia anche della “street art”, disegni e opere sui muri di mezzo mondo, immediati e riconoscibili abbastanza da essere diventati familiari anche alla stampa mainstream e al pubblico meno esperto d’arte. E adesso è al centro di una nuova controversia, tipica delle contraddizioni di cui sopra.
A partire dal gennaio dello scorso anno, dopo il debutto del film di Banksy Exit Through the Gift Shop al Sundance Festival, sono comparsi graffiti dell’artista in giro per le città americane, man mano che avvenivano le prime proiezioni. A volte le immagini apparivano sul sito ufficiale di Banksy, e questa era l’unica prova che i graffiti fossero effettivamente suoi, dato che ha una schiera di imitatori e non autentica i suoi pezzi. Come racconta il Wall Street Journal, a maggio dello scorso anno, un fotografo di Detroit ha riconosciuto lo scenario di un graffito sul sito di un conoscente: era la fabbrica dismessa della Packard nella sua città. Il graffito raffigura un bambino che regge un barattolo di colore di fianco alla scritta “Mi ricordo quando qui erano tutti alberi”. Il fotografo, Bill Riddle, ha detto di aver chiesto l’autorizzazione a un caposquadra che stava facendo dei lavori in zona, poi ha avvertito i suoi amici del collettivo di artisti “555 Nonprofit Gallery and Studios”.
Pochi giorni dopo, il direttore della galleria Carl Goines ha convinto suo padre e i suoi colleghi Jacob Martinez e Eric Froh a raggiungere il muro semidiroccato con un mini-trattore Bobcat, un pickup, una fiamma ossidrica e una sega da muratore alimentata a gas, con una lama da 400 dollari nuova di zecca. Per due giorni hanno lavorato sotto il sole per tagliare i circa sei metri quadri di muro con il graffito, poi hanno rimosso la parete e l’hanno portata alla loro galleria d’arte. Dopo essere stata esposta gratuitamente al pubblico per dieci giorni, a fine maggio l’opera è stata nascosta in magazzino: la galleria aveva ricevuto email e telefonate anonime che minacciavano di distruggere o sfigurare il graffito.
Il “furto” del pezzo di muro con l’immagine di Banksy ha fatto nascere una disputa legale tra la galleria e i proprietari dell’ex-fabbrica Packard dal 1987, la società Bioresource Inc., che nel luglio scorso ha fatto causa alla 555 Gallery presso il tribunale della contea di Wayne. La Bioresource reclama la restituzione dell’opera, stimandone il valore fino a centomila dollari. Secondo i legali della società, il graffito appartiene ai proprietari del muro, perché Banksy è entrato nella loro proprietà senza autorizzazione e poi ha abbandonato lì la sua creazione. Un legale della Bioresource ha fatto presente che il caposquadra contattato in zona non aveva alcuna autorità per rappresentare i proprietari, ma la galleria si difende dicendo che non ha commesso alcun reato portando via la parete dato che non ha rimosso nessun rottame metallico, l’unica cosa che potrebbe aver valore nelle macerie di un edificio. La galleria ha annunciato che intende andare avanti e che esporrà l’opera in un altro edificio abbandonato, un ex deposito della polizia, per replicare l’ambiente da cui l’ha prelevata.
Per incasinare ancora di più le cose, quando ha saputo della querela l’ufficio del sindaco Dave Bing ha iniziato a indagare sulle tasse arretrate che la società deve dal 2006 per la proprietà dell’area, dove ha anche sequestrato mezzi da demolizione. L’amministrazione della città ha un conto in sospeso con la Bioresource, con cui ha sostenuto una battaglia legale molto lunga per la proprietà del complesso, persa dalla città di Detroit nel 2007. La prossima udienza del processo Bioresource-555 Gallery è fissata il 28 marzo.
Oltre ai proprietari dello stabilimento, anche parte del mondo artistico ha mostrato perplessità verso la mossa della 555: secondo un critico d’arte locale, la pittura di Banksy ha senso solo nel suo contesto di street art e spostarla è un errore gravissimo. In un articolo di sabato scorso, Christopher Hawthorne, che si occupa di architettura per il Los Angeles Times, parte anche dal caso del graffito rubato di Banksy per interrogarsi sul ruolo che un’opera d’arte ha con il contesto in cui è stata pensata e prodotta, e sulla possibilità di spostarla dalla sua ambientazione originaria, la fabbrica di Detroit.
La fabbrica abbandonata apparteneva alla Packard, casa produttrice di auto di lusso, che fece progettare il suo impianto di Detroit al celebre architetto di origine tedesca Albert Kahn. I lavori del complesso di 325.000 metri quadri terminarono nel 1903. I suoi criteri di costruzione erano innovativi, per il loro uso del cemento armato al posto del legno, e suscitarono la curiosità di Henry Ford, il fondatore della casa automobilistica, che pochi anni dopo fece progettare proprio a Kahn lo stabilimento di Highland Park nei pressi di Detroit, dove verrà costruita la celebre Ford T. Travolta insieme a tutta Detroit dalla crisi dell’industria automobilistica dopo la Seconda Guerra Mondiale, la fabbrica chiuse nel 1956, due anni prima che il marchio Packard scomparisse. Da allora è rimasta inutilizzata ed è andata lentamente in rovina. Oggi solo uno degli edifici ospita una piccola azienda chimica, e il resto del complesso viene usato solo occasionalmente come set cinematografico: alcune scene di Terminator 3 sono girate qui. Negli ultimi anni le condizioni dell’ex fabbrica sono andate peggiorando, perché la città di Detroit, dopo aver perso la causa legale per la proprietà, ha ritirato i suoi sorveglianti dagli accessi. Ne sono seguiti ripetuti furti di acciaio dalle strutture che hanno causato diversi crolli. Le finestre sono quasi tutte rotte, pezzi di cemento armato cadono sulle strade confinanti, e l’area è piena di buche nel terreno non coperte, mucchi di immondizia, fognature intasate e pezzi di soffitto crollati da cui sporgono barre di ferro.
Il declino di Detroit è iniziato negli anni Cinquanta e da allora moltissimi edifici sono rimasti vuoti, andando lentamente in rovina: hotel, cinema, scuole, tribunali, piscine, biblioteche, centri commerciali e la spettrale Michigan Central Station. Lo spettacolo di questa decadenza ha attratto registi e fotografi, e le rovine di Detroit compaiono all’inizio di uno spot della Chrysler andato in onda durante l’ultimo Super Bowl. Gli abitanti di Detroit non sono per nulla contenti che dell’arte ispirata alle rovine della loro città: il “ruin porn”, come la chiamano.
E in effetti a Detroit c’è e c’è stato ben altro: per limitarsi alla musica, gli albori del punk con gli MC5 e gli Stooges, gli anni ’70 con gli Alice Cooper e la leggendaria etichetta Motown (quella di Marvin Gaye e Stewie Wonder, tra gli altri), l’hip-hop di Eminem. Quando l’arte a Detroit nasce dalle rovine, cerca di trasformarle in qualcosa di nuovo. Negli anni ’80 e ’90, lo stesso sito della Packard si tenevano rave party lunghi tutta la notte: l’ex fabbrica è uno dei luoghi di nascita della scena dance e techno internazionale. Anche oggi i giovani esplorano il complesso abbandonato, ricoprono i muri di graffiti, fanno barbecue sui tetti.