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  • Domenica 6 marzo 2011

Giuliano Ferrara e la CIA

La seconda puntata dell'autobiografia pubblicata dal direttore del Foglio nel 2003

Il rientro sulle scene politiche e televisive di Giuliano Ferrara nelle ultime settimane ha fatto tornare in circolazione anche una vecchia polemica su un suo racconto di otto anni fa dei suoi rapporti con la CIA. Si trattava di una “autobiografia” in due puntate uscita sul Foglio a maggio 2003 e “scritta per il piacere dei lettori più giovani. Infatti, a forza di dire la verità ai mozzorecchi giustizialisti, e di sputtanarli, loro tentano di sputtanare l’elefante che il ciccione è diventato, e inventano balle. Le precisazioni continueranno, sempre che non annoino”. Oggi ripubblichiamo la seconda di quelle due puntate, qui la prima.

Per un anno circa, tra la fine del 1985 e la fine del 1986, tra i tanti lavoretti fatti da F. c’è anche quello di informatore prezzolato della Cia. F. ha già spiegato ieri che nella sua bulimia passionale aveva bisogno di una nuova comunità, e che l’aveva trovata in una relazione professionale, civile e politica con gli ex di Lotta continua che facevano Reporter. Ma una comunità e un leader (Craxi era ormai entrato stabilmente nella sua vita, dopo l’outing) non gli bastavano, al bulimico, e l’ex comunista si procurò un altro Stato guida. Da eretico divenne, come nel rendiconto sublime di Isaac Deutscher, un rinnegato. O un piccolo “lupo mannaro”, così la Pravda definiva i sessantottardi come Marcuse e Cohn Bendit a cui dava di agenti della Cia venti anni prima.

F. ricorda ancora gli incontri, nella stamberga di Trastevere con il giovane sveglio e simpaticissimo agente americano, una cara persona che non vede da quasi vent’anni e di cui serba un magnifico ricordo (il cui nome, naturalmente, F. non farebbe non si dica a richiesta ma nemmeno, come si dice quando si è spavaldi, sotto tortura). Qualcuno aveva corrotto F. e F. si lasciò corrompere senza troppi problemi. E che faceva questo hijo de puta? Ammazzava la gente con l’ombrello avvelenato? Trafugava documenti sulla sicurezza dello Stato approfittando della sua amicizia con Craxi? Bè, purtroppo F. non era così importante. Non era the quiet italian, non viveva in un romanzo di Greene. Si limitava a “spiegare”, cosa che ha fatto tutta la vita, dagli operai torinesi ai riveriti telespettatori. Era l’anno di Sigonella, gli americani erano avidi di sapere chi cavolo fosse questo omaccione che gli aveva mandato i carabinieri contro in una base Usa, erano interessati a capire la sua logica politica. E F. si profondeva in dettagli, analisi, interpretazioni: dalla parte di Craxi, dicendogli quanto era fico e quanto era occidentale. Dettagli molto apprezzati. Una specie di Radio Londra dall’interno del paese più complicato del mondo.

Il frisson, il brivido, c’era già a far quattro chiacchiere con l’amico americano, ma tutto cambiò, in meglio, quando cominciarono a offrire qualche dollaro, poca cosa perché mi spiegò, l’amiko, che la legge Gramm-Rundmann aveva tagliato i fondi della Cia. I dollari erano avvolti in una busta giallina, fantastica, del peso giusto. E perdere l’innocenza era meraviglioso. Qualche conversazione avveniva al Pincio, tra i riverberi della più bella luce del mondo, vicino all’orologio ad acqua, e il passaggio di mano della busta aveva qualcosa di erotico, alludeva alla colpa come nell’adulterio perfetto. Nella politica italiana, buste mai: viste tante, prese nessuna. Non piaceva a F. quell’onesto lavoro dei funzionari di partito. Era un suo difetto (detto senza l’ombra dell’ironia). E non essendo ricattabile, era amato dai compagni che sapevano il fatto loro ma trattato come un alieno, perché in politica non è la capacità di ricatto che fa le carriere ma la disponibilità ad essere ricattati. L’innocenza, si diceva. In fondo poi, per tutta la vita, F. non ha fatto che cercare di capire che cosa sia l’innocenza e quanta vita ci voglia per perderla senza rinnegare un elemento spurio di onestà che negli uomini, per il fatto di essere uomini, deve starsene appartato, riservato, sennò si diventa sciaguratamente persone perbene.

La faccenda spionistica finì alla fine del 1986, complice la televisione. F. teneva su invito di Antonio Ghirelli, che era direttore del Tg2 e gli dava di Falstaff, a F., una rubrichina notturna di politica in cui spiegava Craxi, dalla sua parte, e Andreotti e De Mita e la solita Repubblica, che combatteva apertamente, nella disperazione di Biagione Agnes, rimestando con grazia, sì con molta grazia, nei labirinti avvelenati della prima Repubblica al suo apogeo. Ma se la scrittura è compatibile con la loscaggine, diverso è per la tv. F. la tv la capiva, per così dire, nel profondo della sua coscienza intima. E l’amava come strumento di lotta politica aperta, un altro Ersatz, non era possibile stringere mani di fan e avere quel tipo di riscontro personale, che la parola scritta non conosce, e contemporaneamente continuare con gli incontri al Pincio. Non era possibile per lui. Così disse: basta. L’amico americano era molto dispiaciuto, tra l’altro cambiava l’interlocutore perché lui se ne rientrava a Langley per altre destinazioni, e tutto venne più facile. Insistettero un po’, molto garbatamente, e poi tutto tacque. Molti anni dopo, ai tempi dell’Usa Day dopo la tragedia, ma anche prima in ogni contatto con loro, gli amerikani, F. si domandava: ma lo sanno o non lo sanno che dieci anni fa ero io a confezionargli le schede della politica italiana? E da qualche sguardo birichino, così, nelle more di un cocktail, gli sembrava che sapessero quel che ufficialmente si saprà solo dopo l’apertura degli archivi. Chissà quando.

A proposito di televisione. Dopo la rubrichina, che era già un successone ma per quattro, cinquecentomila spettatori notturni, venne il botto. F. fu chiamato da Angelo Guglielmi, che era un intellettuale dell’avanguardia letteraria (gruppo ’63) e il capo della terza rete, sì, quella “dei comunisti”. Il serpente a sonagli scriveva ieri con il veleno della sua lingua biforcuta, su un giornale anch’esso ogni tanto privo di sonagli, che ha raccomandato F. anche per la Rai, bestiale bugiardo per la gola e per la frustrazione che non è altro. Invece le cose andarono così, furono “i comunisti” a fare riccastro e reuccio dello schermo il panzone. Guglielmi era un eterodosso, infatti l’Ulivo così liberal la prima cosa che fece quando prese il potere fu di ammazzarlo, televisivamente parlando, e metterlo in pensione. L’eterodosso, poi caro amico sempre rispettato, per una trasmissione azzeccata, con una faccia e un ventre riconoscibili, avrebbe fatto carte false, tale la sua passione per il linguaggio televisivo che per un esperimento ben riuscito avrebbe venduto madre, padre e tutti i parenti. Figuriamoci se si sarebbe fermato davanti al problema di dare un’occasione a un ex comunista. E così nacque Linea rovente, un programma in cui F. indossava la toga (eh, eh: la toga, avete letto bene) e “processava” Verdiglione, l’amato Pannella, un ministro socialdemocratico colpito dalle solite accuse, e tanti altri. Da Tonino e dai suoi cari F. non aveva niente da imparare.


Naturalmente quello era un gioco giustizialista, molto barocco e ben gestito dal suo inventore, il vecchio e caro a F. Lio Beghin, un supercattolico veneto che la tv ce l’aveva nel sangue. E da Anna Amendola, una generosa e geniale capostruttura della Rai, calabrese permalosa e comunista, che poi l’azienda non seppe più usare come avrebbe dovuto, deludendola a buon pro di qualche smaniosa o smanioso dei soliti. Era un gioco, ma a Craxi, dicevano a F. i suoi cortigiani, gli rodeva il fegato. Aveva la vista lunga, l’amato amico di F., ormai semplicemente Bettino, e quella toga in tv gli sembrava un cattivo presagio. “Sembra una cosa alla Pecchioli”, disse una volta a F. (il compianto Ugo Pecchioli era il ministro dell’Interno del vecchio Pci, un torinese di ferro che avrebbe fatto qualsiasi cosa per sbattere in galera i nemici del partito).

Dopo un sedici, diciassette puntate, F. fu assediato dagli Intini, dai Manca eccetera, che erano la pattuglia in battaglia televisiva nel duello tra Craxi e il vecchio regime che poi seppellirà il Psi con le sue malìe giustizialiste e le sue bugie e le sue monetine. F. doveva passare alla seconda rete, lì c’era ancora più pubblico, dicevano, tutti a sua disposizione. F., che aveva lavorato pagato un tanto a puntata, le prime assai poco ma le seconde il doppio (nel frattempo F. si era sposato con un’americana meravigliosa e pazza esattamente come lui, che sapeva come si trattano i contratti quando si diventa star o vitelli grassi), accettò di andare su Raidue per il resto della stagione, in cambio di una bella cifra tonda (un miliardo l’anno di allora) e inventò con Lino Jannuzzi, nel frattempo arrivato nel suo inimitabile stile come consigliori del consigliori, un fantastico programma, il Testimone, che faceva ascolti ultramilionari sbattendo in faccia al pubblico qualche esagerazione dietrologica sul caso Moro, tutta la verità sul caso di Tortora e dei suoi aguzzini (vecchio vizio, ma Tortora ne morì proprio in quei giorni, del vizio antigiustizialista). In giro c’era Agostino Saccà, capostruttura socialista, grande mediatore e ruffiano settecentesco, maschera indimenticabile di un certo modo di essere, insieme puttanesco e militante e competente, della vecchia Rai. Svenne quando F. e la sua banda di paese fecero sei milioni e mezzo di spettatori a metà giugno, un tempo in cui la gente la tv la trascura, del 1987.

Svenne anche qualche uomo di marketing del Cav., allora il Dottore. Fine stagione, F. doveva chiudere il contratto per l’anno successivo (siamo a giugno 1987). Il dolce Biagione Agnes, che lo stimava nonostante l’avversione politica (“Caro Ggiuliano, ce lo diche sembre a Ngiriaco: se giavesse un Verrara de’ nosctri, ce facesse nu condratte. E’ che nun g’è”), gli propose un altro miliardo. Invece il Cav. chiamò F. e lo ricevette con il vecchio Fedele Confalonieri in via dell’Anima. All’epoca ricevevano sempre in due: uno seduceva e offriva, il Cav., l’altro giudicava non visto, standosene un po’ di lato con l’occhio furbo: “Sarà affidabile?”. F. sparò due miliardi, la metà esatta di quanto estorse simpaticamente molti anni dopo al suo nuovo editore, il canale indipendente La7, per il prossimo biennio 2003-2005 (ma guarda un po’ il mercato, uno se la cava anche senza i serpenti privi di sonagli). Detto, fatto. Il contratto fu discusso con un avvocato dalla parte di F., persona competente, e dall’avvocato Dotti per la Fininvest. Non so se è vero, ma dissero in seguito a F. che lo avevano corretto e rivisto nello studio Previti, perché a Dotti gli era stata portata via tutta l’azienda, con quelle cifre e quelle norme.

F. firmò con molta allegria, e comunicò a Repubblica in un’intervista, ciò che non usava tra i giornalisti di allora e non usa tuttora, il suo stipendiuccio da calciatore. Repubblica, sempre raffinata, titolò in prima: “Berlusconi acquista Ferrara”. Non male. Però alt! F. la vuole dire tutta. Una malacosa e una buonacosa. Malacosa: il Cav. lo pregò di telefonare all’amico Bettino prima della firma, si usava così allora. Quegli stronzacci erano diffidenti e non sapevano valutare le persone: per loro i portaborse che li hanno traditi, compreso il serpente senza sonagli, e i militanti che poi si batterono, erano sullo stesso piano (almeno per certi versi). E l’effetto di dominio di una telefonata preventiva era per loro, anche per un gigante come Craxi che adorava gli ex comunisti proprio perché avevano qualcosa di indomabile, un balsamo indispensabile.

F. fece il patto col diavoletto. Telefonò, e disse a Bettino, mentre i suoi uomini Rai strepitavano per tenersi il vitello grasso: “Non rompere i coglioni, vado con Berlusconi perché mi paga il doppio di quello che mi ha offerto la Rai e da un privato, tra gli spot, mi diverto di più”. Craxi ridacchiò, disse che due miliardi erano troppo (ricordate? il favoloso Bettino faceva il populista con gli stipendi della Carrà, insomma voleva salvare la faccia, con ironia). Poi la firma, dopo questo piegamento di ginocchi di F., avido giornalista di regime. Buonacosa: F. disse chiaramente a Berlusconi, “guardi che il patto non scritto, quello che conta, è il seguente, lei mi può mandare in video anche 24 ore al giorno, ma se non c’è accordo tra noi su quel che si fa e si dice in video, insomma sui modi, io ho diritto di non andarci nemmeno per un secondo”. Il Dott. disse sì, e poi mantenne la parola. Di qui una bella amicizia.

Il primo anno di F. fu infatti un fiasco e un trionfo. Trionfò Radio Londra, cinque, sette minuti prima di “Tra moglie e marito” su Canale5 alle 8 e mezzo di sera (destini), cinque milioni di spettatori dell’informazione politica in una rete abituata al quiz e senza telegiornali, e uno spazio televisivo inventato, di cui si approprierà un giornalista non di regime, e che non si fa mai pagare per il suo lavoro, di nome Enzo Biagi, che qualche anno dopo debuttò libero e indipendente nello stesso orario e con la stessa formula (bè, gli piacerebbe) su Raiuno, libera repubblica in era Moratti. Invece il Gatto, trasmissione pugnace di prima serata su Canale5, andava maluccio, il talk show in prime time non ha mai funzionato sulle commerciali (ne sa qualcosa l’eroe degli ascolti, Santoro, che fallì clamorosamente a Mediaset nonostante gli avessero dimezzato gli spot, perché lui nelle trasmissioni imbalsamate con Previti e Dell’Utri faceva servizio pubblico, lui).


Ma il disastro fu politico: era il tempo in cui Confalonieri dichiarava apertamente, tra virgolette, che Fininvest avrebbe fatto un telegiornale per Craxi Andreotti e Forlani, e la tv spazzatura del maiale, tra scandali e bisbocce, travestiti e magistrati, non era il paludamento giusto per lo stile di un giornalismo ecumenico e pentapartitico. Sicché si litigò. Un corrucciato F. andò a Milano dal Cav., che stavolta era con Gianni Letta, e gli disse paro paro, sotto una tenda (chissà che manifestazione era): “Ricorda il patto? Ora lei ha dichiarato ai giornali che mi sposta su una rete minore, Italia1, senza nemmeno consultarmi. Eccole il contratto indietro, non c’è problema”. E il Cav., impressionato per tanto ardire (F. crede: impressionato favorevolmente, nonostante tutto), mantenne la parola e si tenne il servo sciocco per un anno, come voleva lui fuori dal video, a lavorare a un progetto di storia televisiva che non si fece mai (il Professore era il titolo). Accettò una punizione costosa, il Cav., un po’ perché non sa dire di no, nel bene e nel male, un po’ perché è di parola e quel patto lo ricordava.

Che ci faceva al Corrierone, intanto, l’ex comunista nel cui corpo ci sono “tonnellate di comunismo” come scriveva giusto ieri una compunta Unità, giornale liberal? Che ci faceva l’ex agente prezzolato degli americani, il convertito sulla via di Bettino, insomma un campione riciclato di questi “avanzi del totalitarismo” (come F. si definisce ogni giorno con il fascistissimo Buttafuoco e il comunista sentimentale Stefano Di Michele in redazione)? Ci faceva la nota politica, ci faceva, seduto nella vecchia sede di piazza del Parlamento a fianco di Paolo Franchi , che vuole raccontato tutto il passato, ma proprio tutto, e con il cane Lupo tra le gambe. Ostellino odiava la “nota politica” e volle un “taccuino”: la politica in pillole, blocchetto per blocchetto. Buona idea, apprezzata anche a sinistra (il politologo Gianfranco Pasquino era un ammiratore). Informazioni da Craxi poche, perché era un diffidente. Ma F. lo aveva sgamato, come si dice a Roma, sapeva le sue mosse nelle crisi arabescate della prima Repubblica perché invece si fidava del Cinghialone, pensava che avrebbe fatto quel che avrebbe fatto lui, il povero F. ovvero un réfoulé della politica, uno che per schifoso buonismo e perbenismo era capace solo di immaginare la politica degli altri. Così un bel po’ di buchi alla concorrenza, senza esagerare perché in giro c’erano altri lupi della notizia bene addestrati, il Corrierone li diede. Poi arrivò Ugo Stille dall’America, al posto di Ostellino, e De Mita nel frattempo cacciò Craxi in malomodo dal governo, non che Bettino ci stesse a modino, anche lui voleva la morte di De Mita e lo insidiava con certe pesantezze mica male.

Ma la linea del Corriere cambiò, lo scontro con Repubblica finì, Misha (il vero nome di Stille) era politicamente e personalmente un uomo di mondo. A Milano agivano Giorgio Fattori e Enzo Biagi, un clubbino che si ritrovava con Lamberto Sechi (quello dei fatti separati dalle opinioni, l’inglese): erano loro, e lo sono restati per anni, il vero potere mediatico dell’intolleranza. E volevano la pelle del ciccione, e forse anche le sue trippe. Approfittando della televisione, e spingendo sul tema dell’esclusiva professionale, volevano cacciarlo dal Corriere. Stille, con il quale F. parlava amabilmente di Leo Strauss, perché era anche una sua vecchia lettura, e che amava e stimava avendolo conosciuto anni prima con suo padre nell’appartamento di Pietro Ingrao a Monte Citorio, allora Ingrao era presidente della Camera (anni Settanta), pensò di trovare la soluzione mandando un F. craxiano che a Roma non si portava più direttamente a Mosca, come corrispondente.

Decise, F., che il Corriere era meglio della tv, e si mise a ristudiare il russo con Elke Ibba, una bella donna bulgara moglie di Fausto Ibba, vecchio e stimabile comunista dell’Unità. Ma sul più bello, mentre il russo gli riveniva su e cominciava a parlottarlo e a scriverlo “con la calligrafia di un bambino moscovita di cinque anni” (precisò la Elke), tutto fallì, con grande sollievo della nuova meravigliosa moglie americana, che non diceva niente ma all’idea di essere deportata a Mosca, sia pure in tempi di perestroika, soffriva e parecchio. I soliti fienghi del cdr dissero che un praticante non poteva andare a Mosca, e salvarono Selmuschka dalla coda riformatrice del totalitarismo sovietico. Niet. Veto. “Vabbè”, disse allora Stille al suo pupillo, “dimettiti e ti riassumiamo con l’articolo 2, e fammi una bella rubrica dal titolo Bretelle Rosse, visto che le tue bretelle sono popolari”, e così cominciò quella rubrica, i cui titoli venivano messi tra virgolette dal burbero Giulio Anselmi (non bastava la fotina e la firma per far capire che quelle opinioni contropelo non erano del giornale), quando il testo non era prefato da un distico “questa non è l’opinione del Corriere” per salvare proprietà, baracca e burattini dai magistrati che nel fatale ’93 il ciccione caricava di brutto; quella rubrica che sempre nel fatale ’93, a sei anni dal suo inizio, direttore e scudo Paolo Mieli, fece qualcosa, non si dica per salvare l’onore del giornalismo italiano o del Corriere, non-lo-si-dica, ma almeno per salvare dalla galera certi serpenti senza sonagli ma col conto protezione, che sognano di aver raccomandato un bandito e spia che può sempre fargli uno scaracchio in faccia senza problemi morali.


A proposito. F. non dimentica niente. Il serpente senza sonagli attacca F. con la menzogna, epperò il suo veleno ha l’effetto squisito di convincere F. a un ragguaglio curricolare (bella l’espressione, vero?). E i ragguagli devono essere precisi, sennò il computer si annoia. Per spiegare (“spiegare”, brutto vizio) le ragioni per questa porcata inqualificabile del serpente senza sonagliera, attaccare con la menzogna uno che ti ha difeso dalla galera per anni, sapendo che in fondo proprio tu te la meritavi, deve citare, F., un dettaglio decisivo. Diceva ieri che Reporter nacque con i soldi di Martelli, aggiunge oggi che morì con i soldi di Craxi, che poi erano sempre soldi nostri, imprese che amano fare cartello e flirtare con la politica (tutte o quasi) e contribuenti che pagano le tasse (pochi, tra cui F.), perché insomma, sì, era contante che veniva dal finanziamento illegale dei partiti. F. ha alcuni ricordi. Deaglio e Panella che lo pregano di andare da Craxi e porgli il problema degli stipendi e della salvezza del giornale, perché gli amici del serpente avevano cessato di versare in un’impresa in perdita. Altro ricordo. Craxi, interpellato, che mette in imbarazzo F. dicendogli che il serpente voleva mettere su una sua “cricca” e che il giornale doveva uscire dal suo raggio di influenza, se voleva la grana (“non sono noccioline del Brasile”, aggiunse con bella rozzezza). Ecco una delle scaturigini dell’odiosa frustrazione che ha spinto il serp. s. sonagli a cercare di infangare, citando il proprio nome reso fangoso dalla brutta storia di questi anni, il nome suo.

Poi gli amici di Reporter, che fu un giornale assolutamente onesto, ve lo dice un bandito, nella cui cucina erano in pochi a guardare (F., al contrario di Giuliano Amato, ha sempre guardato nelle cucine delle case che ha frequentato) e che tutti sapevamo essere finanziato dalla politica socialista dell’epoca (Sofri si faceva il suo Finesecolo, smagliante supplemento culturale, ma a Firenze), mi informarono del fatto, gli amici di Reporter, che Cornelio Brandini, simpatico e matto mozzo di Bettino, era arrivato a chiudere qualche conto con quella che la raffinata Ilda la Rossa definirebbe “una paccata di milioni”. Ma neanche i forzieri di Craxi sarebbero bastati a salvare quell’impresa, troppi giornalisti, troppo costosa la diffusione, troppo cara la piccola officina di fotocomposizione del Testaccio, costava troppo il sistema Atex, troppo le foto, troppo il settore grafico (informazioni venute utili quando fu fondato il Foglio, undici anni dopo).

Che cosa è più scandaloso? La consulenza alla Cia? Essere stati comunisti? Essere usciti dal comunismo ed essere diventati anticomunisti? La raccomandazione di Ronchey per il Corriere? Scrivere per il Corriere liberamente contro i disegni non condivisi di De Mita e a favore di Craxi, contro i mozzorecchi e per gli inquisiti del ’93, senza mai insultare o leccare il culo? Avere imposto uno stile non falsamente paludato al giornalismo finto dei Biagi&Fattori, una roba in cui si sa cosa pensa chi scrive o parla, si sa da che parte sta? O è più scandaloso aver fatto come Ugo La Malfa il Grande, usare soldi neri per stampare un giornale, non proprio una prima volta nella storia della libertà di stampa, e raccontarlo adesso per la verità, e con una punta di orgoglio? Che cosa conta davvero, il retrobottega o la vetrina,imezzioifini?F.nonlosa,efa questo tuffo nel passato perché sa che non lo saprà mai.