Come cambia la politica estera di Obama
Le rivolte in Nordafrica e Medioriente avrebbero convinto l'amministrazione a cambiare approccio
Le rivolte in Medio Oriente e Nordafrica hanno aperto il dibattito su quale dottrina di politica estera sia meglio adottare nei confronti dei paesi di quest’area. La discussione ha coinvolto soprattutto gli Stati Uniti, che negli ultimi dieci anni hanno concentrato proprio in quella zona del mondo i loro maggiori sforzi diplomatici e militari, e per quanto complessa può essere asciugata in una domanda semplice e fondamentale: l’obiettivo primario degli Stati Uniti nell’area dev’essere la protezione dei propri interessi e della propria supremazia economica e militare, o la promozione dei diritti umani, della democrazia, della libertà e dell’autodeterminazione?
Le due cose possono coincidere, in determinati casi, ma in altri casi confliggono apertamente. Nel caso delle operazioni militari in Iraq, per esempio, la protezione degli interessi americani coincideva con l’abbattimento di un regime violento e dispotico (e sappiamo del gigantesco dibattito su quale dei due obiettivi abbia contato di più per l’amministrazione Bush). Nel caso della Tunisia o dell’Egitto, invece, l’abbattimento dei regimi violenti e dispotici ha portato alla caduta di due regimi alleati degli Stati Uniti, cruciali nel contenimento del terrorismo e nella stabilità dell’area.
La politica estera di Obama, fin dal momento del suo insediamento, ha privilegiato il primo approccio al secondo. Se George W. Bush era solito avere un atteggiamento provocatorio e a tratti persino sfrontato nei confronti di paesi come l’Iran o lo stesso Egitto, Obama ha cominciato il suo mandato all’insegna del coinvolgimento di questi paesi, nel tentativo di stabilizzare l’area. I suoi primi dodici mesi alla Casa Bianca sono stati costellati di messaggi di apertura e offerte di collaborazione verso il regime iraniano, di buoni propositi sul “ricominciare da capo” i rapporti con la Russia sua solida alleata, di cura verso regimi dall’importanza geopolitica cruciale come quello dello Yemen (dove è andata recentemente in visita Hillary Clinton, prima visita di un segretario di Stato in vent’anni).
Quando regimi come l’Iran, la Tunisia, l’Egitto e la stessa Libia sono stati scossi da forti proteste antigovernative, gli Stati Uniti non sono certo stati il primo paese a sostenere le rivolte. L’amministrazione Obama si è attirata le critiche di molti commentatori di sinistra – ultimi Christopher Hitchens e Leon Wieseltier – per il ritardo con cui il presidente ha condannato le repressioni e si è schierata dalla parte della libertà e della democrazia: effettivamente nel caso della Libia le dichiarazioni di condanna di Obama sono arrivate praticamente per ultime, dopo quelle del resto del mondo occidentale, persino dopo quelle dello stesso Berlusconi. La scelta di perseguire la stabilità e la non ingerenza negli affari di quei regimi è apparsa particolarmente stonata in un momento storico in cui le stesse popolazioni hanno messo in discussione quei regimi con gran forza.
Ora sembra che l’approccio della Casa Bianca stia per cambiare. Qualche giorno fa il Los Angeles Times ha pubblicato un articolo secondo cui l’amministrazione Obama, anche a fronte di quanto successo negli ultimi mesi, si appresta a cambiare tono e strategia, e adottare una nuova dottrina in Medio Oriente. Una nuova dottrina simile alla precedente: privilegiare la promozione della libertà alla promozione della stabilità, spingendo i governi dell’area a serie e concrete riforme politiche ed economiche.
È in parte una scelta obbligata, visto che la caduta di Mubarak e le sanguinose repressioni di Gheddafi obbligano gli Stati Uniti a trovare nuovi alleati. Ma è anche una deliberata decisione politica: la stabilità è un bene prezioso da tutelare ma le dittature sono stabili solo nel breve termine. Prima o poi finiscono, tutte: finiscono spesso nel sangue e non si sa mai cosa può venire dopo. I regimi più stabili, invece, sono proprio le democrazie. Insomma, gli interessi americani e la promozione dei diritti umani possono coincidere.
Prendiamo il Bahrein, per esempio. Gli Stati Uniti hanno una base militare di grande importanza strategica in Bahrein. La fine del regime mette a rischio l’esistenza futura della base militare. Se il Bahrein fosse una democrazia, invece, accordi del genere potrebbero essere negoziati meglio e non sarebbero soggetti al rischio che dall’oggi al domani l’intera infrastruttura politica del Bahrein possa essere capovolta da una sommossa popolare. Certo, ci sono paesi con cui si potrà adottare un tono più aggressivo e altri con cui si potrà cambiare poco. Difficilmente la Cina potrà essere trattata come la Libia, difficilmente l’Arabia Saudita potrà essere trattata come la Siria o l’Iran. Si porrà comunque ancora il problema della contraddizione tra gli interessi americani e la tutela della democrazia: in Egitto, per esempio, dove la fine del regime di Mubarak potrebbe portare potere e influenza senza precedenti ai Fratelli Musulmani. E si porrà per Obama anche il problema delle risorse e del tempo da destinare alla politica estera, visto che da qui a pochi mesi sarà costretto a occuparsi quasi a tempo pieno di una campagna elettorale incentrata esclusivamente su temi di politica interna.