Il futuro di Al Qaida
Le organizzazioni terroriste escono sconfitte dalle rivolte ma potrebbero approfittarne dopo
Per circa vent’anni i leader di Al Qaida hanno combattuto contro i dittatori dei paesi nordafricani, accusandoli di essere traditori dell’Islam e burattini nelle mani dell’Occidente. Oggi quelle dittature stanno soffrendo colpi terribili, in certi casi sono esperienze di fatto concluse: e Al Qaida in questo non ha avuto praticamente nessun ruolo. Parte da qui un’interessante analisi di Scott Shane sul New York Times, che nota come i movimenti antigovernativi che hanno stravolto il mondo arabo hanno capovolto anche i due pilastri della strategia di Al Qaida: la violenza efferata e l’estremismo islamico. Al contrario, i manifestanti hanno usato la forza solo per difendersi e hanno chiesto governi democratici, “un anatema per Osama bin Laden e i suoi seguaci”.
Dall’altro lato, la presenza e il ruolo dell’estremismo islamico nei paesi toccati dalle proteste rappresenta in Occidente una delle incognite più grandi relative al futuro di quell’area. La democrazia può costringere all’irrilevanza una forza la cui propaganda si è sempre basata sulla liberazione dall’oppressore. Oppure può generare una fase di instabilità che il terrorismo può trasformare in caos e guerriglia. Finora, però, prevale la prima sensazione.
Per molti esperti di terrorismo e Medio Oriente, le ultime settimane sono state un disastro epocale per Al Qaida: i jihadisti sono apparsi spettatori della storia, i giovani musulmani hanno percorso e ottenuto una strada attraente e alternativa al terrorismo per la richiesta di libertà e diritti.
Fino a questo momento i leader di Al Qaida non hanno commentato le rivolte e alla caduta dei regimi di Mubarak e Ben Ali, che tanto avevano contestato. Non ha parlato bin Laden. Il suo numero due, l’egiziano Ayman al-Zawahiri, ha diffuso tre comunicati un po’ sballati, nei quali parlava male di Mubarak come se non fosse a conoscenza delle sue dimissioni. Zawahiri negli anni Ottanta fu arrestato e torturato dal regime di Mubarak. «Fare fuori Mubarak è stato l’obiettivo primario di Zawahiri per vent’anni», dice al New York Times Brian Fishman, esperto di terrorismo. «Ora Mubarak è stato spazzato via in qualche settimana da un movimento giovane, democratico, non violento e non religioso: per Al Qaida è un grosso problema».
Questo ovviamente non esclude rischi per il futuro, e non solo perché in Afghanistan e Pakistan la situazione continua a essere critica e lontana da una risoluzione. Il venir meno dell’ordine costituito può essere, almeno inizialmente, un grosso vantaggio per le cellule terroristiche. La caduta dei regimi, la dissoluzione degli eserciti, la grande diffusione di armi, possono nel breve termine favorire i reclutamenti di Al Qaida. La violenza esercitata da Gheddafi sulla sua popolazione può incentivare le persone a schierarsi insieme ai suoi oppositori più violenti, gli estremisti islamici. L’eventuale delusione generata dalla faticosa transizione verso la democrazia può spingere alcune persone tra le braccia dei jihadisti. Anche se Al Qaida non ha avuto un ruolo nell’organizzazione di queste rivolte, insomma, questo non vuol dire che non possa approfittarne.
Questo anche perché le democrazie occidentali sono state spiazzate dalle rivolte, costrette a rivedere in fretta parte della loro strategia di contenimento del terrorismo internazionale: in particolare la parte basata sul lavoro dei regimi di Mubarak, di Ben Ali, di Gheddafi, alleati degli Stati Uniti per il loro prezioso ruolo di ostacolo e lotta ad Al Qaida. Una svolta che obbliga gli Stati Uniti a individuare una nuova strategia a lungo termine. «Bisogna ripensare globalmente il ruolo degli Stati Uniti in quella parte del mondo», ha detto al New York Times l’analista Christopher Boucek. «Dev’essere chiaro che la nostra sicurezza non può essere più ottenuta a spese di chi vive privo di diritti in paesi con governi molto poco democratici».
foto: ARIQ MAHMOOD/AFP/Getty Images