Cosa fa George Clooney in Sudan
L'impegno di Clooney in Sudan: la storia, i risultati e perché ha deciso di non buttarsi direttamente in politica
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L’impegno di George Clooney sul fronte umanitario e, in particolare, nella questione del Sudan, è cosa nota da tempo; così come da tempo è dibattuta l’opportunità del coinvolgimento in simili problemi delle star, spesso pronte ad entrare in questioni più grandi di loro al momento dell’emergenza per poi ritrarsi e dimenticare. Ma non va sempre così, e Newsweek ha ritenuto di mettere George Clooney sulla copertina di questa settimana per descrivere più chiaramente in cosa consistano le cose che fa.
Il referendum che ha deciso, circa un mese fa, la separazione del Sud Sudan dal governo islamico autoritario di Khartum è solo l’ultimo capitolo di una guerra civile durata vent’anni, che conta a oggi oltre due milioni di vittime, e difficilmente si tratterà del capitolo conclusivo. L’impegno di Clooney, iniziato nel 2005 dopo un viaggio in Africa col padre giornalista, è stato efficace per portare questo conflitto all’attenzione internazionale, prima mediatica e poi politica. John Avlon ne scrive le motivazioni, i passaggi, i risultati, l’attenzione e lo scetticismo generati.
In questi cinque anni Clooney si è trovato spesso ad attraversare a bordo di un furgone le strade polverose del Sudan, accompagnato dallo sguardo vigile di giovanissime guardie armate di mitra e da quello ancora più vigile dei paparazzi. Uscendo dalla capanna di un capovillaggio, al quale aveva promesso aiuti e rappresentanza diplomatica, si è visto circondato dalle telecamere della CNN e di SkyNews. Le reti televisive sono pronte a inviare intere troupe in luoghi senza acqua corrente o elettricità pur di seguirlo. «Se devono seguirmi ovunque – ha commentato Clooney – voglio che mi seguano anche qui.»
Del resto, dopo i recenti sviluppi, si definisce un paparazzo lui stesso: privo dei lacci burocratici che spesso condannano le vie ufficiali a un frustrante non-interventismo, ha acquistato un satellite puntato perennemente sul Sudan. Periodicamente pubblica sul suo sito SatSentinel le foto scattate dall’apparecchio, sottolineando quelli che possono sembrare movimenti sospetti di mezzi militari, campi improvvisati e scavo di trincee. L’obiettivo è evitare che al risultato del referendum facciano seguito nuovi scontri sanguinari.
«Sono il paparazzo anti-genocidio» scherza.
«La realtà è che l’attenzione pubblica è determinante per salvare vite, che si tratti del rischio di un genocidio, di malattie o di fame. – spiega l’editorialista del New York Times Nicholas Kristof – Le star possono generare questo tipo di attenzione, che a sua volta genera la volontà politica di fare qualcosa per risolvere il problema.
Clooney ha i numeri di telefono dei ribelli sudanesi in rubrica tra i preferiti, e quando è sul set riceve continui aggiornamenti sulla situazione in Sudan. Ha parlato davanti alle Nazioni Unite, è stato ricevuto da Obama che ha incaricato il senatore John Kerry di occuparsi dei problemi legati alla scissione del paese africano. Ma non ha intenzione di occuparsi direttamente di politica: «Non ho vissuto la mia vita nel modo giusto per fare politica – dice. – Sono stato a letto con troppe donne e mi sono fatto di troppe droghe, è la pura e semplice verità».
Nessuno ad Abyei ha mai visto un film di George Clooney. La sua credibilità deriva dai numerosi viaggi in Africa […]. Tra le due fazioni è visto come un uomo privo di costrizioni burocratiche, capace di dialogare con il potere e di amplificare la voce di un piccolo villaggio su una dimensione internazionale.
«Il mio lavoro è amplificare la voce del tizio che vive qui e che ha paura che sua moglie e i suoi figli possano essere trucidati. – dice Clooney – […] Se mi trova e mi chiede “Hai un grosso megafono?”, io rispondo “Sì”. “Hai una montagna abbastanza alta da cui posso urlare?”, “Certo, ho una montagna decisamente alta”. “Mi faresti un favore, urleresti per me?”. Non posso che rispondere “Certo”.»