«Ma mica sarai comunista, prof?»
È uscito «Quelli che però è lo stesso», il romanzo di Silvia Dai Pra', insegnante nella periferia romana
di Silvia Dai Pra'
Sono finita qui a mondare i peccati del mio fallimento. Diploma con sessanta sessantesimi, laurea con centodieci e lode, dottorato di ricerca con borsa vinto a venticinque anni, un anno di studio a Copenhagen, un anno a Parigi, due lingue straniere scritte e parlate, diverse pubblicazioni – e il risultato è stata la mia prima convocazione in provveditorato, una mattina in cui settembre spargeva su Roma una luce ancora estiva, straziante: cinque ore di grida, crisi isteriche, ipotetici complotti, telefonate ai carabinieri e ai sindacati da parte di una massa di precarie pericolosamente vicine alla menopausa, e il ritorno verso la metropolitana con in mano il documento che attesta il mio primo incarico annuale come professoressa, mestiere che sia mia nonna che mia madre erano riuscite a fare con una semplice laurea sul curriculum, dei figli in arrivo, e, attorno, un mondo che considerava quel mestiere già un successo, per una donna.
E sono finita qui, a Ostia Nord, in un tratto di lungomare in cui i ristoranti di pesce kitsch lasciano spazio a casette tutte a un piano, colorate, con gli aquilotti o i leoni in pietra sul cancello, casette che hanno iscritto nel dna la loro nascita abusiva, per redimersi al primo (se l’hanno fatto) condono edilizio – e poi: un mare che tende al marrone, una striscia di sabbia ricoperta di bottiglie che degrada verso la foce del Tevere e le baracche dell’Idroscalo, parchetti invasi di spazzatura, palazzi in lontananza.
Sono finita qui, davanti a questo ecomostro di un bianco accecante, con la bidella che mi accoglie sui portelloni antipanico dell’ingresso chiedendomi: carina in che classe stai non t’ho mai vista?; una signora con un tailleur blu e una spilla a forma di foglia dorata sul bavero della giacca che mi ficca un registro in mano e mi spiega che, in quanto ultima arrivata, non potrò pretendere molte modifiche su un orario personale che si spalma dalle prime luci dell’alba a parecchio dopo il tramonto; e un gruppo di signore vestite Max Mara nella sala docenti – capelli mesciati, anelli costosi, l’aria della moglie del professionista che lavora mezza giornata solo per giustificare la necessità di avere una donna di servizio – che non si curano di salutarmi. «Professoressa, venga con me, la accompagno in classe…», è dal giorno della mia maturità che non entro in una scuola, ed ora, all’improvviso, eccomi: professoressa.
«Uh, il serale, quanto ti invidio…», a confortarmi giunge il ricordo della voce della mia zia di Trento. «È stata la mia migliore esperienza nella scuola, davvero… Intanto non hai il problema della disciplina, il che è già tanto. E poi, troverai persone motivate. Persone che vogliono imparare qualcosa, veramente!» «Il serale, accidenti…», ripesco pure il ricordo della voce di un mio amico di Padova: «Ci sta insegnando mio fratello… ed è troppo contento! Ha tutti questi stranieri, gente che lavora, che dietro ha delle storie… pensa che tanti di loro il diploma ce l’hanno già, qualcuno c’ha pure la laurea, solo che devono rifare tutto da capo perché qua i titoli non glieli accettano…».
«Il serale, che incubo…», adesso è il momento di riesumare una conversazione con un depresso fiorentino: «Io ho smesso di insegnare, dopo quell’esperienza… c’erano tutti questi… adulti… che mi guardavano male, capisci? Che mi facevano domande! Domande su domande, sembrava che volessero sapere tutto!» Trento, Padova, Firenze: ma non Roma. Dove nessuno si sarebbe curato di spiegarmi perché, ad aspettarmi davanti alla classe, ci fossero loro: i ragazzi espulsi da tutte le scuole del regno.
«Che è, ’na pischella?»
«Me vié già da ride. Ma quanti anni c’hai?»
«E mo mica vorrai spiegà?»
I ragazzi problematici, i ragazzi che la scuola normale non vuole più perché “impediscono il regolare svolgimento del programma”, i ragazzi che, a furia di sospensioni, sono stati, non messi alla porta, ma dirottati qui: in modo che l’istituto non venga meno al suo dovere di combattere la dispersione scolastica, o (se vogliamo vederla in un altro modo) in modo che la scuola non perda neanche uno studente, e quindi neanche un euro di finanziamento.
Li guardo. Hanno crani rasati su cui si ergono creste da mohicano, piercing al labbro e al sopracciglio, tatuaggi che escono dalla maglietta, figure stilizzate che fanno sesso a pecora sulle t-shirt, zeppe di dieci centimetri, occhi stropicciati dalle canne.
«Certo che la prof vuole fare lezione! La prof è qui per fare lezione!»
Gli adulti: esistono. Sono lì, sparsi nell’aula, le gambe che si allungano sotto il banchetto in fòrmica, quelli che presto scoprirò essere carabinieri e finanzieri, a pochi metri da coloro che, forse, tra pochi anni trarranno in arresto: qualcuno mi osserva con piacere, altri, con fastidio, aspettano che io mi imponga. «Seeee… lezione!» Jessica, imparerò a conoscerla: ma per ora vedo solo un essere in sovrappeso con una tuta in acetato blu che scivola su mutande bianche da maschio. «Con questa ar massimo se famo du’ cannette!»
«Adesso zitta!»
Salvo, carabiniere di un metro e novanta, batte il pugno sul tavolo. «Noi siamo qui per studiare, mica per sentire te!»
«È… lo sbirro è… il mestiere più infame che c’è…» canta un nanerottolo dalle retrovie: assomiglia ad Alvaro Vitali, e non sono certo la prima a notarlo visto che tutti lo chiamano Pierino, anche se al secolo fa Tomas Di Serio. «Quando indossa la divisa un leone è…».
«Professoressa, lei ci fa pure storia?» un ragazzo che mi dà del lei! Gli sgrano gli occhi addosso, accenno un sì con la testa. «Allora ci parlerà pure delle foibe?»
Foibe, un fremito: e non so che mi stanno mettendo alla prova, non so che, in questo mondo di comunisti, l’intento di Flavio è quello di sapere se la mia apparente gentilezza si spingerà fino al punto di portare, nell’insegnamento della storia, la loro storia.
«Be’, sì. Penso di sì. Dovremmo».
«Bene» dice Flavio, cacciando fuori il quaderno: sull’avambraccio la scritta tatuata La paura è delle prede si intarsia a una tigre che sta per spiccare un balzo.
«Allora? Di che ci parla?»
«Perché un uomo è un uomo se c’ha una tradizione, e c’hai una tradizione se c’hai una razza, e c’hai una razza se la sai rispettare ed onorare e questo si chiama avere le palle!»
Carlone mi sembra, rispetto ai ragazzi, un fascista rassicurante. Un fascista cresciuto, fallito, travolto da una moglie che non è voluta restargli accanto, dalla nascita dei cocopro e dei cococo, dalla crisi economica mondiale, dal boom dei centri commerciali e dei mobilifici a basso costo, e, ovviamente, dal complotto giudo-plutaico-massonico che lo condanna, a quasi quarant’anni, a vivere ancora con la mamma. È qui, nel cortile della scuola, davanti a me, professoressa da un’ora e mezza, con la fiamma dell’accendino pronta a farmi accendere, e il braccio che spinge contro il torace, in modo da far risultare il bicipite ancora più mastodontico.
E in modo che io possa leggere agevolmente la scritta a caratteri gotici che gli spunta tra la peluria del braccio: memento
audere semper.
«Lo sa che vuol dire, vero?»
«Ma che, m’hai presa per scema?» sorride: gli piacciono, le risposte così (sì, Carlone non cerca la donna sottomessa, vuole l’agone intellettuale, la dea da venerare, la gemella – me ne ricorderò, più avanti).
«…e poi, perso il lavoro in azienda ho rilevato un negozio di lampade e lampadari. Ho lasciato l’insegna vecchia perché non c’avevo i soldi, ma poi, appena ne facevo un po’… insegna nuova, nome nuovo: mea lux. ’Na favola, eh?»
«E poi che è successo?»
«Il capitalismo, pressoré: m’ha schiantato». Carlone è un fascista rassicurante, perché è un perdente: rimestare nei rifiuti del novecento, per lui, è un modo per fornire una spiegazione storica al lettino a una piazza nella stanza che a quarant’anni divide ancora col fratello; recuperare il concetto di impero romano conferisce al suo essere di Ostia una superiorità rispetto a quelli di Piacenza o di Sondrio; rispecchiarsi nell’iconografia fascista, in quei corpi virili, potenti, testosteronici, dona un significato particolare al suo essere (almeno quello) nato maschio.
«Io mica volevo vendere marchi da globalizzazione tipo l’Ikea, io volevo lavorà con gli artigiani, con la gente che fa con le sue mani, con queste pressoré, con le mani! Ma con queste cose non campi, pressoré. Fallito quasi subito. Manco l’insegna ho comprato, manco l’insegna…», e adesso mi sbatte in faccia altri tatuaggi: un drago fantasy, Per aspera ad astra, una banale celtica, e due uomini che fanno sesso da tergo.
«Scusa un attimo…», due ore da professoressa, e il concetto che la relazione educativa è una relazione che riesce se l’insegnante mantiene la giusta distanza, instillatomi per ogni via durante gli anni della ssis, è già andato dove merita di andarsene: gli afferro il bicipite e lo osservo.
«Scusa… e questi due?»
«Rugby» risponde con orgoglio.
«Sembra più…»
«È un placcaggio. Questo sò io» dice, indicando il soggetto passivo. Trattengo una risata: lui mi guarda.
«Lei c’ha proprio della figlia del sole, pressoré. Gliel’hanno
già detto?»
«Cosa sono?»
«Una figlia del sole. Non sa cos’è?» la mia ignoranza lo conforta, lo rallegra, lo esalta: le mascelle, il torace, le spalle, tutto in lui si gonfia fino a farlo sembrare uno dei marmi del foro olimpico. Scuote la testa, divertito. «Allora c’ha ragione Jessica che sei proprio ’na pischella!»
«Ma cosa sono questi figli del sole?»
«Te lo spiego poi» dice lui, passando con disinvoltura dalla terza persona alla seconda.
Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole… Non c’è Ostia senza che il pensiero corra a Pasolini, non c’è tentativo di capire la periferia romana e i suoi giovani fascisti senza cercarne il motivo nei suoi scritti – anche se dubito che Tommasino di Una vita violenta avesse improbabili cappelli rosa shocking, tute bianche abbassate sulle mutande, la faccia di Hitler scaricata da internet e appiccicata sul diario – anche se spero che, fosse anche solo per la vicinanza temporale, Tommasino sapesse di che anni parliamo quando si parla di ventennio:
«Perché ’r Duce… lui lo diceva, sì che lo diceva: l’Italia agli italiani!» (Esposito Marzio detto Mazza, 3a B alberghiero, anni diciassette, due bocciature – da “Mi presento alla nuova professoressa”: e se mi bocciano pure st’anno prof, allora vado a
lavorare ke io ci sarei andato anche st’anno però mia madre
non mi sta a sentire dice ke devo prendere il diploma, o prof
mi aiuti??? 🙂 )
«Veramente non lo diceva nel senso tuo. Ai tempi di Mussolini mica c’erano, gli extracomunitari».
«Vabbé non c’erano gli extracomunitari però l’ha detto».
«Ma non l’ha detto per gli extracomunitari».
«A prof! Ma se l’ha detto l’ha detto, no?»
«Sì, ma non l’ha detto contro gli extracomunitari».
«Sì, vabbè, ma che ci parlo a fare con te? Vuoi sempre averci ragione!»
«Marzio, ti ho detto che puoi darmi del tu?»
«Eccone ’n’altra. E allora dammi del lei pure te!»
«…perché ’r Duce ce sapeva fà… quelli che volevano lavorà, gli trovava un lavoro, quelli che non volevano lavorà, in galera!»
«…perché sò romano de Roma e ’r Duce ha fatto tanto per Roma qua attorno l’ha tutto bonificato lui!»
«…perché cor Duce l’Italia ha avuto il suo ultimo momento di grandezza!»
«…perché cor Duce funzionava tutto!»
«…perché ’r Duce ha messo gli ebrei nei forni e ha fatto bene! Che quelli hanno fregato i soldi agli italiani, hanno!»
«Perché ’r Duce ce l’aveva coi comunisti e quindi era un grande».
«E che t’hanno fatto di male i comunisti?»
«Prof…»
(Facce: sconvolte; incuriosite; oppure semplicemente, stranamente, ineditamente deste.)
«Ma mica sarai comunista, prof?»
(Facce: tutte ineditamente deste.)
«Be’, io…»
«È comunista! Lo vedete, è comunista! L’ho sempre detto, io! Cosa v’avevo detto! Con quei pantaloni, poi!»
«Cos’hanno i miei pantaloni?»
«Come cos’hanno, ma non lo vedi quanto sono larghi?»
…occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società: lo scriveva Pasolini nel 1962, dopo essersi infuriato contro una giornalista a cui aveva concesso un’intervista, e che l’aveva pubblicata travisandola, modificandola, spacciando la solita immagine del poeta maledetto che lui detestava tanto. La giornalista aveva un figlio neofascista, e, durante l’intervista, avevano parlato a lungo di questo: di come lei non capisse quella fascinazione del ragazzo, di come le avesse provate tutte per fargli cambiare idea, senza successo. Letto il pezzo, Pasolini finiva per convenire che, in fondo, il fascismo del ragazzo era una risposta, sostanzialmente più simpatica, a quello che era il fascismo della madre: il fascismo snob, fatto di cultura di superficie, il fascismo della borghesia progressista.
È difficile, però, proiettare l’immagine di quella raffinata giornalista di sinistra su queste madri: con la tinta che parte da metà orecchio, i gambaletti che strizzano il polpaccio sotto la gonna, le occhiaie sul volto struccato, e un rispetto quasi da Italia umbertina mentre pronunciano la parola professoressa – e si fa anche difficile, a meno di non fornirsi di una buona dose di falsa coscienza, non pensare che la rimaterializzazione di quella giornalista siamo noi, le insegnanti.
«Ma di che ti sconvolgi? Sono idioti, gentaglia, feccia…», insegnanti come Olimpia, marito primario, pelliccia leopardata, suv acquistato mentre era responsabile di un progetto della scuola sull’ecologia e il rispetto dell’ambiente.
«Dovresti andare nel liceo di mio figlio! Lì, al classico, sì che si trovano dei veri studenti…».
«Io non ci posso andare al classico… non ho l’abilitazione giusta».
«Allo scientifico?»
«Neanche».
«E allora cambia mestiere. Mica puoi pensare di passare tutta la vita co’ ’sta feccia. E ora fammi andare che ho mio padre che sta male. Lo sai che io ho la centoquattro, vero? Ecco, potrei starmene a casa quando voglio, e invece sono qui!»
«Ma allora se ognuno fa come gli pare poi non ci possiamo stupire che al governo abbiamo questo presidente del consiglio!», insegnanti come Marta, giacca a vento, jeans, scarpe da ginnastica, venticinque anni di precariato alle spalle e l’ossessione che i germi del berlusconismo si nascondessero dovunque, anche in noi, soprattutto in noi, nel nostro pacato lassismo, nel buonismo dei nostri sei stiracchiati, nei nostri voti che raramente scendevano oltre la barriera del cinque.
Marta pestava duro, invece: ogni mattina spegneva la sveglia alle sei, si metteva la sua antiestetica giacca a vento rossa, e percorreva i cinquanta chilometri che dividono Centocelle dal litorale per potersene tornare a casa la sera col suo zaino pieno di due, tre e quattro rivoluzionari.
«Le vedi?» mi diceva, uscendo dai consigli. «Va tutto bene, tutto passa… e poi non ci possiamo lamentare se al governo abbiamo Berlusconi!» Marta insegnava economia aziendale: e mi è sempre sfuggito quale collegamento ci fosse, nella sua testa, tra imparare ad emettere una fattura e sottrarsi ai diktat di Forza Italia; gli altri colleghi, quando i consigli per colpa sua duravano due ore invece che una, quando cominciava a urlare per sovrastare tutte le altre voci, mi sottoponevano la loro teoria:
«È la classica precaria storica» dicevano, con la spocchia che nella scuola contraddistingue i diruolo.
«Sono sempre così. Si sentono poco importanti, quindi, appena arrivano in un posto nuovo, devono subito farti capire che non si lasceranno mettere i piedi in testa, che loro hanno tanta esperienza».
«Lo sai qual è il problema?» mi diceva lei «Che questi ragazzi sono convinti di poter fare tutto quello che vogliono, che…»
«Ma se tanti di loro già lavorano…»
«Perché hanno dei genitori che se ne fregano!»
«Ma quindi, secondo te, perché sono fascisti?»
«Perché non hanno regole, chiaro! Imparano a fregare prima ancora di imparare a parlare! Copiano! Fanno i furbi! Se non torniamo a rispettare il principio di autorità qui…».
Più autoritarismo per combattere il fascismo: questa era la ricetta di Marta. Quella di Olimpia erano gli sputi. Quella degli altri, era, semplicemente, una scrollata di spalle: e il tempo galantuomo che avrebbe placato gli animi, limato le asperità, rimescolato le carte per trasformare questi allegri fascistelli in mesti operai stempiati di centro-destra.
E, forse, non avrei esitato a ignorarli come facevano loro, se non avessi avuto ancora, a trent’anni, rimasugli dell’impazienza giovanile che rifiutavano di staccarsi dalla pelle: volevo tutto e subito, non volevo morire democristiana, e, soprattutto, mi ero stufata di passare le mie giornate a placcare giovani maschi che comunicavano tra loro urlando heil hitler, tirandosi cazzotti sui bicipiti gonfiati dalla palestra, e rivelandomi che il sogno che rincorrevano nell’attesa dei diciott’anni non era una banale automobile, ma il porto d’armi.
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È uscito per Laterza Quelli che però è lo stesso, il nuovo romanzo di Silvia Dai Pra’ sulla sua esperienza di tre trimestri come insegnante in un istituto professionale della periferia romana.
Silvia Dai Pra’ è nata nel 1977 a Pontremoli. Laureata in lettere, ha conseguito un dottorato di ricerca dedicato all’opera di Elsa Morante. È autrice di un romanzo, La bambina felice (Gremese 2007)e del reportage Cuor Crocifisso (in Il corpo e il sangue d’Italia, Minimum Fax 2007). Suoi racconti e articoli sono inoltre usciti su il Manifesto, Lo Straniero, il Riformista, nelle antologie Da un mondo all’altro (La Tartaruga 2006), Generazioni. Nove per due (L’Ancora del mediterraneo 2005) e su altre riviste. Vive e lavora a Roma.