La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio – Episodio 14
Penultimo episodio pubblicato sul Post dell'ultimo libro di Brizzi: Patrizia d'Addario, vulcani finti e Pasolini
La calda estate di papi
Un pomeriggio, di fronte alla tabaccheria di via Guidotti, m’imbattei nel mio vecchio amico Iuri Giacobbi.
L’Italia del Silvio non era un paese per fessi, e Iuri si era ritagliato la sua fettina di benessere: era passato dalla vendita di prodotti per il dimagrimento all’attività di promotore finanziario.
Quando lo vidi io era abbronzatissimo, e sembrava su tutte le furie.
«Bella, vecchio» mi salutò e, dopo i baci sulle guance, restò a guardarmi come ce l’avesse con me.
«Tutto bene, Iuri?» domandai.
Mi mostrò il pugno destro: aveva le nocche spellate di fresco, e un rivolo di sangue gli disegnava il dito medio.
«Mi sono appena preso a manate con un talebano» sospirò. «Un lavavetri del cazzo. Gli avevo detto di non toccare la mia Classe A, e quello niente. Ride, e mi sporca il parabrezza di schiuma.»
Imprecai, intuendo cosa stava per raccontarmi. «E c’era bisogno di alzare le mani?»
«Io non sono razzista e tu lo sai», mi piantò l’indice sullo sterno. «In fabbrica c’era gente di tutti i colori, ma stavano al loro posto. Ma chi cazzo sei, tu, per arrivare lì e sporcare la macchina che mi sto pagando un mese alla volta?»
Me lo domandò furioso, come fossi stato io a gettargli la schiuma sul parabrezza, poi scoppiò a ridere e ricordò: «Mentre scendevo, l’infame ha provato anche a colpirmi col bastone. Si vede che usa così, al suo paese». Con gli occhi che sembravano schizzare fuori dalla testa, ammise: «Ah, ma gliele ho date per bene».
«Chissà che bella scena» sospirai.
«Se non mi fermavano, gli spaccavo quella faccia di merda contro il palo del semaforo» notò.
«Iuri, era solo un povero…»
«Anche tu!» s’indignò. «Ma finitela! Cosa devo, farmi pisciare nel culo solo perché è straniero? Se era italiano lo trattavo uguale, te lo giuro!» Poi si guardò attorno, sospirò e disse: «Spero solo non mi abbiano fatto un bel film. Con tutte le telecamere del cazzo che ci sono in giro, capace che all’inizio la madama mi lascia tranquillo, e poi si fa sentire al telefono tra qualche settimana».
Stavo per ricordargli che un tempo gli piacevano, le telecamere, ma era troppo su di giri.
«Io mi faccio i cazzi miei» ribadì. «Ma, se vogliono lo scontro, sono qui. E tu?» mi riscosse per una spalla. «Non dirmi che ti sei trasformato in un cagasotto! Proprio ora che serve tenere la guardia alta!»
«Contro i lavavetri?» lo provocai.
«Cosa vuoi che ti dica, vecchio» sospirò deluso. «Non son tipo da lasciarmi pestare i piedi.»
La paranoia nei confronti degli immigrati aveva terreno fertile, con teste calde come lui.
Non mi risulta che sia mai stato indagato per la rissa col lavavetri; in compenso, pochi mesi dopo si accapigliò con un barista italiano in una stazione di servizio sull’A14. Quello aveva osato accusare Iuri di avere pagato con cinquanta euro falsi, e lui era impazzito.
Li dovettero separare due agenti della Stradale: per la cronaca, appurarono che la banconota era contraffatta, e ne trovarono altre tre con lo stesso numero di serie nel portafogli del mio amico.
Iuri passò una notte in cella di sicurezza, e se ne andò con un paio di denunce sul groppone.
«Si vede che non ho ancora imparato a vivere» fu il suo unico commento, agro e autoironico, prima di celebrare gli eventi facendosi tatuare sull’avambraccio la scritta – dal discutibile spelling – «One agaist all».
Walter Veltroni, primo segretario nazionale, se n’era andato a febbraio dopo avere auspicato un governo di larghe intese alla tedesca: era stato proprio il Silvio ad importare l’idea in Italia, ma stavolta aveva respinto l’ipotesi con una pernacchia.
Perso il segretario a poche settimane dal voto, Dario Franceschini ne aveva preso con abnegazione il posto in corsa; poiché veniva dalla Margherita, molti ex Ds gli avrebbero preferito Bersani, ma non c’era più tempo per organizzarsi.
Alle settime elezioni europee di giugno l’Italia aveva a disposizione 72 seggi: nonostante l’inquietante condotta del Silvio, il Popolo della Libertà se ne aggiudicò 29, e altri 9 andarono alla Lega.
Contando che il Pd si era fermato a 21, e l’Italia dei Valori a 7, suonò come una sostanziale tenuta delle forze governative: i pretoriani del Silvio erano gente di principi, e non avrebbero mai abbandonato il proprio leader solo perché frequentava delle minorenni.
(E poi che ne sapevamo, noialtri? Magari era semplicemente sua figlia. E chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni!)
Quando finalmente il loro campione venne ricevuto alla Casa Bianca, noialtri di Francigena XXI avevamo fatto in tempo a raggiungere a piedi il Tirreno, i nuovi eurodeputati avevano già fatto la loro prima visita a Bruxelles e Obama si apprestava a festeggiare i primi cinque mesi da presidente.
Si sapeva che il Barack era un tipo informale, ma restammo tutti stupiti quando lo vedemmo accogliere il Silvio torreggiando su di lui, per poi posargli entrambe le mani sulle spalle.
«Adesso lo sculaccia!» gridai, invece l’uomo più potente del mondo s’incurvò per cercare lo sguardo dell’uomo più potente d’Italia e lo salutò con un gioviale: «Great to see you, my friend».
Perlomeno non portava rancore verso il nostro paese.
Dopo un’ora e mezza di colloqui riservati, i due statisti si ripresentarono alle telecamere: Obama ribadì che l’Italia era un alleato cruciale degli Stati Uniti, e il Silvio garantì a sua volta: «Sono qui a collaborare con il presidente Obama, così come è successo in precedenza con i presidenti Clinton e Bush».
Sembrava stranamente fuori fase, meno sorridente del solito, ed evitava lo sguardo del Barack: che avesse dei pensieri?
«Sarei molto lieto» aggiunse col solito tocco creativo nella consecutio «se continuando i nostri rapporti si possa arrivare ad una amicizia».
Manco a dirlo, rientrò in patria raccontando che aveva trionfato: a sentire i suoi sostenitori, anche per la fusione fra Fiat e Chrysler – già annunciata dal Barack a fine aprile – i meriti maggiori andavano riconosciuti al Silvio.
Per quasi settantadue ore l’immagine del nostro leader tornò a rifulgere: aveva fermato i comunisti, salvato Alitalia, ripulito Napoli in una notte, e adesso anche Obama si era inchinato – non l’avevamo visto, in tivù? – di fronte alla sua maestà!
Elogi e panegirici della stampa amica si sprecavano. La stagione del Silvio sembrava avviata alla salvezza con quel gol in trasferta a Washington, ma il destino crudele era in agguato: all’ultima giornata di campionato entrò in campo una bionda fuoriclasse di Bari, tale Patrizia d’Addario.
La donna si mise subito in luce con un’intervista ubriacante, nella quale sosteneva di avere trascorso una notte a pagamento col Silvio. Poiché all’inizio non era chiaro se fosse una escort o una candidata del Pdl, o entrambe le cose, la stagione ne risultò compromessa senza rimedio.
Come benzina sul fuoco, uscirono sui siti web di alcuni giornali esteri le foto delle vacanze del Silvio in Costa Smeralda.
Ormai potevamo spiare il leader dal buco della serratura: si vedeva una escort che reclamava attenzione per la propria candidatura, una ex partecipante del Grande Fratello seduta sulle ginocchia del presidente del Consiglio e qualche valletta chiusa in bagno, attenta a immortalarsi con la fotocamera del cellulare, per poter documentare l’unica sera in cui era stata ospite a casa del leader.
Fra bassezze assortite, un dubbio prese a serpeggiare anche tra i fedelissimi: che avesse ragione Veronica Lario, a volersi separare da un marito così?
Quell’estate, per colmo della sfortuna, non c’erano né mondiali né olimpiadi a catalizzare l’attenzione pubblica. Va detto, però, che si svolsero almeno tre raduni di altissimo livello: i Giochi del Mediterraneo a Pescara, i Mondiali di nuoto a Roma, e il XV Aiba World Championship di pugilato a Milano. Con quali dinamiche si fossero gestiti gli appalti relativi ad alcuni di questi eventi, sarebbe stato reso noto pochi mesi più avanti da un’inchiesta della Procura di Firenze.
Nuoto, atletica e boxe, tuttavia, non bastavano a distogliere del tutto gli sguardi dalla spettacolare mancanza di etica familiare che sembrava caratterizzare le ferie del Silvio e delle sue favorite.
Pareva le gratificasse con gioielli a forma di farfalla, o di tartaruga, se solo facevano finta di stupirsi quando lui faceva eruttare il vulcano finto costruito in giardino, e dopo si dimostravano carine con lui.
In privato il suo modello comportamentale sembrava richiamarsi a Hugh Hefner, il patron di «Playboy», anche se le «conigliette» originali non erano mai diventate onorevoli: qualcuno, fra i prelati della Chiesa cattolica, non esitò a giudicare sconveniente una simile condotta di vita.
Per noi laici, un miliardario di settantaquattro anni circondato da ragazze leggere era uno spettacolo così ovvio da apparire noioso: il Silvio in fondo al cuore era rimasto un ragazzo, con tutte le sue ville e l’implicita pretesa di soddisfare ogni femmina in vista.
I suoi continui accenni a una vitalità insaziabile, quasi mussoliniana, avrebbero sollevato solo sorrisetti di circostanza, se il Nostro non fosse stato il presidente del Consiglio.
E a noi cosa fregava mai, di quel che faceva il Silvio mentre era in ferie?
A me, personalmente, un fico secco; fino a che punto fosse ricattabile il presidente del Consiglio, da quali e quante persone, erano le vere domande che si doveva porre chiunque avesse a cuore il destino del paese.
Dal 2005 al marzo 2009 «Pigi» Battista, ex di «Epoca», «La Stampa» e «Panorama», aveva ricoperto la carica di vicedirettore del «Corriere della Sera» con delega per le pagine culturali, inframezzando l’attività giornalistica a frequenti apparizioni televisive.
Nell’aprile 2009 era tornato a Roma come inviato editorialista del quotidiano di via Solferino, e il 27 luglio sferzò la voyeuristica estate italiana con un articolo che forse qualcuno giudicò il capolavoro del giornalista in quanto a coraggio e consapevolezza civile; personalmente, Quel Pasolini da dimenticare mi lasciò verde di bile fra gli alpeggi dell’Alto Adige, indeciso se telefonare indignato in via Solferino, scrivere alla rubrica dei lettori o, semplicemente, contenere il fremito che aveva colto le mie mani e m’impediva di proseguire nella lettura.
Aveva scritto «Pigi»:
Periodicamente si riaffaccia il celebre verdetto di Pier Paolo Pasolini: «Io so, ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale […] che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico». Lodato come luminoso esempio di coraggio civile e di temerarietà culturale, la famosa invettiva dell’«Io so, ma non ho le prove», ancorché concepita nel periodo più buio dello stragismo italiano, è l’espressione del peggior Pasolini, l’esaltazione meno sorvegliata dei vizi che hanno devastato la fibra etica del ceto intellettuale italiano: lo schematismo dottrinario e ideologico («che mette insieme i pezzi in un quadro coerente»). La noncuranza per i fatti. Il disinteresse politico e, ciò che è peggio, giuridico per le «prove». La realtà deformata come narrazione di parte. La ferocia giustizialista. Il manicheismo morale. La debordante sopravvalutazione di sé, del proprio ruolo, della propria abnorme missione profetica.
Formulando quella sentenza, l’anticonformista, eretico Pasolini si piegava ai dettami del conformismo più corrivo.
Conformista e feroce, il mite intellettuale eretico e omosessuale Pasolini? La sua barbara uccisione sarebbe dovuta bastare a opporre un pietoso freno alla vis polemica, ma Battista non si tratteneva e incalzava le spoglie del Poeta: «Cosa sapeva Pasolini? Niente. Ma anche tutto, dal punto di vista della religione di cui era guardiano».
Quindi l’amabile «Pigi» concludeva maramaldeggiando:
Come Saint-Just che chiedeva la condanna capitale di Luigi XVI non perché fosse colpevole di una singola e «provata» azione criminosa ma per il crimine supremo e inappellabile di essere Re, così Pasolini tuonava contro il Nemico da schiacciare come un mostro. Il peggior Pasolini. Che va dimenticato, per la disperazione dei suoi troppi epigoni, pessimi allievi di un cattivo maestro.
Chissà se Pigi ricordava i tempi in cui il «Corriere» ospitava proprio Pasolini, e l’ultima intervista rilasciata da quest’ultimo a Furio Colombo, poche ore prima di essere trucidato.
«Siamo tutti in pericolo», l’avrebbe voluta intitolare.
«Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo» erano state le sue ultime parole. «Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.»
Il giorno seguente, domenica 2 novembre, il suo corpo senza vita era all’obitorio della polizia.
Questo lo sapevano proprio tutti; cosa poteva avere guidato il bravo Battista ad accanirsi contro un glorioso esponente delle patrie lettere?
Poiché dimenticare un poeta, giornalista, narratore e regista massacrato in una notte di barbarie e misteri mi sembrava una pratica infausta per la nazione, respirai profondamente l’aria sottile delle Dolomiti e decisi di dimenticare, piuttosto, «Pigi» Battista.
Ero solo un narratore con la passione del trekking, ma dovevano essere in montagna anche i grandi intellettuali, perché l’unica replica degna di nota all’incendiaria riesumazione di Pasolini arrivò da Vittorio Sgarbi: era felice come Franti di sostenere che lui invece lo sapeva benissimo, chi erano i mandanti degli scempi italiani. A differenza di Pasolini, lui ne aveva pure le prove: secondo il nervoso critico d’arte di Ferrara, i colpevoli erano perlopiù gli amministratori locali del centrosinistra, e in particolare quelli che avevano installato pannelli solari.
Quasi incredibilmente, sui giornali che mi passarono per le mani in quei giorni, non si andò oltre la sua boutade.
Solo in Rete, e dopo ferragosto, trovai interventi puntuali e sdegnati.
Quello che mi colpì maggiormente si trovava sul sito www.pasolini.net, ed era a firma della curatrice di quelle «pagine corsare» in Rete, Angela Molteni:
C’è un libro di Pasolini, l’incompiuto Petrolio, in cui lo scrittore, dopo quelle che Battista definisce frettolosamente «invettive», inizia a fare nomi e a formulare indizi […]
In Petrolio (come e ancor più che in altre opere di Pasolini) è contenuta la storia dell’Italia delle morti violente, delle stragi, delle concussioni, delle appropriazioni indebite, dei tentativi golpisti; vi sono descritti personaggi e misfatti reali, che Pasolini non esita a smascherare e a denunciare. […]
Se qualcuno ha mostrato coraggio e capacità di analizzare con attenzione i fatti che si svolgevano intorno a lui, e di trarne, grazie a una mente guidata dall’intelligenza (dote rara), le logiche conseguenze e previsioni, si può perlomeno essere certissimi che non si tratti di Pierluigi Battista.