La rivoluzione in Cina è fallita, per ora
Le manifestazioni di questi giorni in Cina non sono paragonabili a quanto successo in Egitto e Tunisia
di Matteo Miavaldi, Simone Pieranni
La Cina sull’orlo della rivoluzione? Dopo uno sbadiglio, la domanda è: di nuovo?
Già perché dopo ogni sciopero, ogni tentativo di manifestazione, dopo ogni premio Nobel o discorso che arrivi da Washington, sia su Google, il Dalai Lama, i diritti umani, la carne di cane, i bambini rapiti, gli sputi, i rutti e il Partito Comunista, sembrerebbe che il Paese sia sull’orlo di una rivoluzione che poi puntualmente non c’è. Così è accaduto anche con la non rivolta del Gelsomino, andata in scena sugli schermi dei computer degli occidentali e di pochi cinesi (e ancora meno erano quelli per strada, se non si contano i giornalisti e i poliziotti).
Non che sia un bene, in generale, ma si tratta di segnali. La Cina è un paese che cova le sue indubbie contraddizioni, il cui esito sociale è incerto e non facilmente etichettabile. Nel paese noto per i suoi fake, non sembra esserci spazio per una rivolta posticcia, uno shanzai delle rivoluzioni del mediterraneo. Questo non significa che anche la non-rivolta del Gelsomino non possa, nel tempo, produrre partecipazione e spirito di protagonismo da parte dei giovani cinesi.
Con il tempo, appunto. Perché domenica 20 febbraio, quando l’appello pubblicato sul portale internet americano in mandarino boxun.com avrebbe dovuto smuovere le coscienze e chiamare a raccolta le presunte masse rivoltose ancora silenti, davanti al McDonald’s di Wanfujing, la via del Corso pechinese, si sono presentati in quattro gatti. Più, chiaramente, un dispiegamento notevole di polizia e giornalisti occidentali, in prima linea nella speranza di testimoniare all’inizio della fine della dittatura cinese, romanticamente prevista davanti ad un fast-food americano. La questione – ed è una differenza piuttosto evidente tra Cina e altri paesi – è che la censura e la propaganda qui funzionano benissimo.
I fatti e altre questioni
Il dissidente in esilio negli Usa Wang Dan, ha salvato l’appello in cinese sulla sua pagina di Facebook . In precedenza l’annuncio era apparso su boxun.com e poi su canyu.org. Infine nella serata di sabato sera era partito l’hashtag sui microblog, #cn220. Si tratta del testo con il quale è stata convocata una manifestazione, la Jasmine Protest, in 13 città cinesi, sulla scia di quanto accaduto nel mondo arabo. Un appello che non è stato raccolto dai dissidenti più in vista, come Ai Weiwei – o da coloro ancora non costretti agli arresti domiciliari temporanei – e per di più veicolato da social network che qui in Cina, oltre ad essere oscurati, sono utilizzati da una microscopica minoranza tra i giovani cinesi.
Nella giornata di ieri, a Pechino, Shanghai, Canton ed Harbin si sono registrati piccoli eventi, con poche persone a partecipare. La folla più numerosa era composta da poliziotti locali, in uniforme e non e giornalisti. Uno dei corrispondenti di un quotidiano americano, Tom Lassater , ha twittato nella mattinata di ieri: «vedendo questa folla di macchine fotografiche, una cinese con occhiali Dior si è avvicinata e mi ha chiesto se c’era qualche celebrità».
L’attitudine dei curiosi, osservando con un minimo di attenzione le fotogallery pubblicate dai maggiori quotidiani mondiali, fa pensare molto più agli spot “Italia 1” che alla determinazione di piazza Tahrir: curiosi sorridenti e foto in posa davanti al capannello di persone sono immagini che non meritano di essere affiancate alle sommosse nordafricane. Poi si può naturalmente disquisire sulle differenze – e alcune somiglianze – tra quanto successo in Egitto, Tunisia, Libia e la Cina, ma ci sono elementi di vita quotidiana, culturali e immediati che fanno credere si stia parlando di due mondi molto lontani tra loro.
Innanzitutto il governo cinese è molto più attento alla situazione sociale di quanto non siano le dittature cadute in queste settimane. A stretto giro, negli ultimi giorni, si sono succeduti appelli di Hu Jintao per un maggior controllo del flusso di notizie in rete e di Zhou Yongkang – membro del Comitato centrale del Pcc – che ha esortato i colleghi a migliorare la gestione della stabilità sociale sul lungo termine. Anche durante il XII Piano quinquennale, entrato in vigore col 2011, l’obiettivo principale stabilito dal governo è stato esplicitamente lo “sviluppo sostenibile e condiviso”, ovvero proseguire nella crescita economica ma con un occhio di riguardo per la redistribuzione della ricchezza e del reddito tra le masse popolari, come ancora le chiamano qui. Esempio virtuoso in questo senso è la regione del Jiangsu, una delle più prospere della Cina costiera motore delle esportazioni nazionali, con un piano di sviluppo che prevede il raddoppio degli stipendi urbani e rurali entro il 2018. Non l’aumento, il raddoppio!
Che queste buone intenzioni lascino il tempo che trovano sarà materia di osservazione e studio in futuro, ma il dato oggi è che le autorità del Pcc non hanno lasciato nulla di intentato, bombardando la popolazione di messaggi armoniosi ed affettuosi, coccolando il consenso del quale godono indubbiamente non tanto per passione politica dei cinesi, quanto per pigrizia moderna. La dissuasione di massa sembra troppo potente per spingere alla rivoluzione la classe media, ovvero i potenziali utenti in grado di intercettare la chiamata alle armi via internet. La macchina della censura e della repressione del resto si muove snella ed agile: già nella serata di sabato scorso alcuni attivisti erano scomparsi; domenica in ogni luogo in cui c’è stato un segnale simile a una mini protesta, sono stati portati via con tranquillità e fermezza i protagonisti. E internet è di nuovo blindato.
Su questo tema si interroga il blogger cinese Junling Hu: «Se la gente fosse stata a conoscenza della protesta, ci sarebbe andata? Sapremmo una risposta se il governo non avesse tirato giù l’annuncio sui siti, se non avesse bloccato Facebook, Twitter e non avesse filtrato la parola Jasmine nei microblog o nei post laddove si è usata quella parola. In altri termini, il governo non ha altra scelta se non quella di rasare ogni informazione sensibile. In apparenza il governo non vuole che neanche l’1% della popolazione intera possa sapere qualcosa riguardo la protesta. Quando noi abbiamo celebrato le rivoluzione nel mondo arabo, non abbiamo realizzato l’importanza delle tecnologie, di internet, finché non ci siamo voltati indietro a guardare la Cina. I tre siti internet che hanno giocato un ruolo cruciale laggiù, twitter, facebook, youtube, sono bloccati in Cina. Non a caso la Cina ha bloccato oltre 100 siti internet considerati sovversivi, tra i quali anche Foursquare».
Inoltre, ed è un dettaglio da non sottovalutare, il ruolo dei social network diventa decisivo in fase di supporto alla manifestazione, di organizzazione e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. I primi a scendere in piazza nell’escalation dell’Africa del nord sono stati i tunisini con la loro rivolta del pane; solo dopo il primo moto degli affamati si sono aggiunte delle connotazioni per una svolta democratica fino al coinvolgimento dei social network, ma la scintilla è stata la fame, senza bisogno di transoceaniche istigazioni alla rivolta o hashtag di Twitter rimbalzati in mezzo mondo. E questo la dirigenza del Partito comunista, cresciuta a ciotole di riso e teorie maoiste, lo sa molto bene: fu lo stesso Mao Zedong, in contrasto coi piani alti del Pcc durante la guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Kaishek, a spingere per un’insurrezione popolare che fosse contadina, non operaia, che partisse dalle campagne, non dalle fabbriche.
Con le dovute proporzioni, il malcontento risiede ancora nelle regioni più povere della Repubblica popolare, dove continuamente si verificano violenti espropri terrieri in nome del progresso, da dove provengono i lavoratori migranti – a centinaia di milioni – motore della produzione made in China a basso costo (e che la scorsa estate si sono già incazzati a dovere, con la serie di scioperi Foxconn ed Honda finiti con un sostanzioso arrotondamento della busta paga), dove i prezzi dei generi alimentari di prima necessità sono saliti alle stelle con la siccità che quest’inverno è piombata sui campi coltivati a grano e verdura della Cina centrale.
Senza contare la minaccia della bolla immobiliare che pende sulle metropoli più ricche ed il piano di rivalutazione graduale del RMB, manovra economica che inevitabilmente andrà ad incidere sulla fascia meno abbiente della popolazione cinese. Tutti problemi già segnati nell’agenda di Pechino, ai quali il governo, almeno apparentemente, sta cercando una soluzione armoniosa, per dirla nello slang dei figli della Rivoluzione, con la R maiuscola. Per questo voler applicare a tutti i costi il brevetto del Gelsomino alla situazione cinese appare una forzatura poco comprensibile e che anzi apre il fianco alle critiche grossolane della propaganda nazionale, tutta impettita di fronte al tentativo di ingerenza straniera nelle cose cinesi. Ciò che deve accadere, accade (cit.)