Oltre il confine
A Ciudad Juarez cinquantatré persone sono morte nelle ultime settantadue ore
Negli ultimi tre giorni cinquantatré persone sono morte a Ciudad Juarez, in Messico. Quattordici venerdì, venti sabato, diciannove domenica. Tra questi, quattro poliziotti. Di cui uno ucciso con dieci colpi di pistola a distanza molto ravvicinata in pieno giorno per avere multato l’autista di una macchina.
Ciudad Juarez è l’epicentro più sanguinoso della guerra tra i narcotrafficanti messicani. La sua posizione al confine tra Messico e Texas ne fa un territorio fondamentale per il controllo dei traffici verso gli Stati Uniti: distesa sulle rive del Río Grande, si trova esattamente di fronte a El Paso e insieme alla città texana forma un’area metropolitana transnazionale di circa due milioni e mezzo di persone. Dall’inizio dell’anno, qui, sono morte in media otto persone al giorno. Ventiquattro donne in venti giorni soltanto dall’inizio di febbraio.
Gli Stati Uniti finora hanno cercato di arginare il traffico di droga e di immigrati provenienti dal Messico costruendo una recinzione metallica che corre lungo il confine. È una rete di acciaio alta circa cinque metri e dipinta dello stesso color ruggine del paesaggio desertico circostante. Attraversa interi paesi e città e si estende per un terzo di tutta la frontiera meridionale tra Stati Uniti e Messico. È controllata da migliaia di poliziotti, unità anti-droga e agenti dell’FBI. In Arizona è stato istituito un gruppo di vigilanza ad hoc, i Minutemen. Nei punti in cui mancano le pattuglie, i controlli vengono effettuati tramite un sistema di sensori elettronici, telecamere e droni che sorvolano il confine. Il giornalista del Guardian Chris McGreal è andato in Texas a parlare con alcune delle persone che vivono a pochi chilometri dalla recinzione e si è fatto raccontare quello che hanno visto accadere negli ultimi anni.
Charlie Bruce era un poliziotto texano della vecchia scuola. In più di quarant’anni ha tenuto alla larga i criminali dal suo paese, Del Rio, ma non ha mosso un dito contro il costante flusso di immigrati provenienti dal Messico in cerca di migliore fortuna. Li ammirava per il loro coraggio e alcuni di loro gli hanno anche costruito la casa. Quello che succedeva dall’altra parte del confine era tutta un’altra cosa. In quel caso, Bruce ammette senza vergogna di avere abusato della sua autorità di poliziotto texano per lucrare sui traffici illegali di sigarette e whiskey provenienti dal Messico. Nella maggior parte dei casi, si trattava di pagare mazzette di qualche migliaio di dollari per poi rivendere la merce di contrabbando al di qua del confine. Ora, a 75 anni, vive in pensione in una nuova casa a pochi chilometri dal confine e ammette che il gioco gli veniva facile proprio perché era un poliziotto. Ride della recinzione voluta dal governo americano: «Puoi stare sicuro che finché dall’altra parte non ci sarà lavoro continueranno ad arrivarne molti e nessuna recinzione li potrà fermare».
Spostandosi un po’ più a ovest si arriva a Eagle Pass, un altro paese texano legato a doppio filo con il Messico.
Eagle Pass fu il primo insediamento americano sulle sponde del Rìo Grande. Una stretta porzione del fiume lo divide da Piedras Negras, in Messico. Gli abitanti si considerano parte di un unico paese e per anni Eagle Pass non ha avuto neanche un ristorante perché le persone preferivano andare a mangiare in quelli più a buon prezzo dall’altra parte del fiume. Praticamente tutti qui sono di origine messicana, il che ha reso particolarmente strano che le ultime elezioni amministrative abbiano eletto come sindaco Chad Foster: il primo sindaco non ispanico di Eagle Pass negli ultimi quaranta anni. «Non riuscivano a trovare nessun altro e sono venuti da me», scherza Foster. Al tempo quella per l’amministrazione Bush era sembrata una scelta furba. Eagle Pass aveva attirato l’attenzione di Washington come uno dei punti in cui gli immigrati riuscivano a passare con più facilità, eleggere un sindaco non ispanico sembrava la mossa più conveniente da fare.
Ma Foster non diceva nulla di quello che il governo voleva sentirsi dire. Per lui gli immigrati non erano un problema: lavoravano nei campi e si integravano rapidamente nella città. In più, il governo voleva che la recinzione attraversasse una delle risorse più preziose del paese: il campo da golf, da cui potevano entrare anche duecento immigrati al giorno. «Dicevano che la recinzione avrebbe rallentato il ritmo d’ingresso degli immigrati di circa quattro minuti», spiega Foster «e noi dovevamo accettare di produrre un impatto negativo sulla nostra comunità e sulle relazioni con i nostri vicini per questo?». Poi la recinzione è stata costruita lo stesso e i controlli sono diventati sempre più severi, ma nessuno a Eagle Pass sembra essere convinto che le cose siano davvero migliorate.
«Non sono un esperto di sicurezza ma secondo me la recinzione è offensiva», dice Guillermo Berchelmann, gestore di due ristoranti, uno a Eagle Pass e uno a Piedras «le persone non capiscono, siamo una sola comunità. Ci sposiamo, abbiamo famiglie a Piedras. Gli studenti attraversano il confine ogni giorno per andare a scuola da una parte all’altra. Eravamo abituati ad attraversare il confine più volte al giorno». Ora invece gli abitanti di Eagle Pass sono sempre più spaventati di andare a Piedras Negras perché la violenza tra le bande dei narcotrafficanti è notevolmente aumentata negli ultimi anni. Il capo della polizia locale è stato ucciso lo scorso aprile, era stato nominato solo tre settimane prima. Nei mesi successivi, il suo vice e altri tre agenti sono stati rapiti.
Nel frattempo gli immigrati continuano a trovare nuovi modi per attraversare la recinzione. In alcuni casi basta un camion che faccia sporgere una lunga scala al di là della rete, in altri casi basta aprire un buco o scavare dei tunnel al di sotto. E quando la polizia li scopre, basta scavarne uno pochi chilometri più in là. Molti, però, spaventati dalla possibilità di essere arrestati, si avventurano ad attraversare il confine nelle zone più desertiche, meno controllate dalla polizia ma più pericolose.
L’anno scorso, i corpi di quattrocento presunti immigrati clandestini furono ritrovati nel deserto dell’Arizona, probabilmente morti per disidratazione. Il governatore dell’Arizona, Jan Brewer, cercò di sfruttare l’episodio per sostenere la necessità della sua nuova controversa legge anti-immigrazione. Disse che quelli ritrovati erano i cadaveri di trafficanti di droga e che alcuni corpi erano stati decapitati. Quando fu smentita dalla polizia, che accertò che nessuno dei corpi fosse stato decapitato, rifiutò di dare altre spiegazioni.
Foster dice che gli americani invece di preoccuparsi della recinzione dovrebbero smetterla di vendere armi ai cartelli della droga messicani. «Stiamo armando i narcotrafficanti e diamo la colpa ai messicani», spiega «Il novanta percento delle armi usate dai narcos vengono dagli Stati Uniti e il nostro governo non fa niente per fermare tutto questo». In realtà l’amministrazione Obama sta iniziando a prendere le distanze dal progetto della barriera d’acciaio, per cui il governo ha già speso circa un miliardo di dollari per il primo tratto di ottantacinque chilometri. Una ricerca recente del Government and Accountability Office ha dimostrato che i sensori elettronici non riescono a capire la differenza tra un animale o una persona che stia cercando di attraversare la rete, e che i radar non riescono a fare molto meglio. Per completare la recinzione servirebbero ancora otto miliardi di dollari, ma intanto quella esistente è già piena di buchi.