La saga di Saba Sahar
I film della più popolare attrice afgana, cineasta tuttofare contro il mondo oscurantista dei maschi
di Davide Turrini
Nemmeno su Imdb, la bibbia del cinema in rete, è disponibile la sua biografia o filmografia. Eppure Saba Sahar, trentacinquenne attrice, regista e produttrice afgana è la star cinematografica più popolare del suo paese. La sua storia è stata raccontata dal giovane regista tedesco Sebastian Heidinger in Kabul dream factory, un documentario proposto nei giorni scorsi nella sezione Forum della Berlinale, il festival cinematografico di Berlino. È il ritratto sobrio e dettagliato di una donna decisa, eccentrica ed anticonformista, che nell’ultimo travagliato ventennio dell’Afghanistan ha fatto prima l’artista, poi la poliziotta e infine, negli ultimi nove anni, la regista e l’interprete di otto film che mescolano soap opera e action movie, stilemi alla Bollywood e consapevole ironia. A svettare sull’intera filmografia, il messaggio di un’eroina che mena schiaffoni, ammanetta arroganti maschietti, prende decisioni autonome rispetto alla tradizione sociale e religiosa del suo paese: donna afgana, decidi da sola il tuo destino.
Saba Sahar ha cominciato a fare l’attrice di teatro a Kabul già nel 1986, per poi studiare arte all’università della capitale afgana. L’arrivo dei talebani l’ha costretta alla fuga, prima in Iran poi in Pakistan, per fare ritorno in patria solo nel 2001 assieme al marito Sayad Sahir, anche lui attore. Nel 2002 la donna si iscrive a un corso di nove mesi per diventare poliziotta, lo supera brillantemente e comincia a pattugliare le strade di Kabul. Nello stesso anno fonda la sua casa di produzione cinematografica (Saba Film) e sempre nello stesso anno dà il via alle riprese del suo primo lungometraggio: The law (“Quanoon” in originale).
Inizia così la saga di Saba Sahar, emancipata donna poliziotto che sgomina gang di maschi violenti. Per The law sono serviti tre mesi di riprese, un cameraman alle prime armi, attori di teatro (Rafar Sulan, Dur Mohammad Beli Ayar) e facce da new cinema afgano, sorta di miscela tra neorealismo alla De Sica e John Cassavetes. Nonostante il regime talebano avesse imposto la distruzione delle sale cinematografiche e proibito qualsiasi tentativo di produzione artistica per più di un lustro, l’esordio di Sahar è un successo: dapprima il film viene visto clandestinamente solo da uomini poi, lentamente, il film si fa strada anche tra le donne. La locandina di The law, con Sahar a mezzo busto che impugna una magnum d’ordinanza, diventerà l’icona di tutta la sua carriera cinematografica: un simbolico richiamo per tutte le impaurite e fragili donne afgane, un incoraggiamento a compiere gesti e azioni quotidiane normalmente effettuate solo da uomini.
In Kabul dream factory si registra proprio questa urgenza morale che trascina Sahar in decine di nuovi progetti “culturali”. Ed è così che lei definisce il suo cinema, mentre la si vede fare onorevole questua per supporto e finanziamenti tra gli uffici del governo Karzai: «In Afghanistan per il cinema era meglio due o tre anni fa, oggi la cultura non è più una priorità per il mio governo. La sicurezza è diventata la loro prima missione». In quell’«action» più volte gridato da davanti alla macchina da presa, Sahar sfodera una grinta da tuttofare cinematografica che ricorda i migliori esempi di cinema indipendente e che emerge ben oltre le sue doti recitative, tendenti al melodrammatico.
Kabul dream factory segue Saba nella sua vita di tutti i giorni, registrandone le debolezze e i più divertenti espedienti di sopravvivenza quotidiana. La vediamo indossare il burqa per andarsi ad acquistare i vestiti tra le bancarelle più costose del mercato («senza mi farebbero pagare di più»), litigare disinvolta con il proprio autista/cameraman/montatore Emal Zaki («ma che sei figlio del mullah Omar?») o mettersi repentinamente a pregare con tappetino srotolato verso La Mecca, nel bel mezzo delle faccende impiegatizie in ufficio.