La nuova vita della chimica italiana
L'accurata analisi di Dario Di Vico rivela che il declino si è interrotto grazie alle piccole società
Oggi il Corriere della Sera dedica un’intera pagina allo stato dell’industria chimica italiana, con un articolo firmato da Dario Di Vico.
Trevira è un marchio di poliestere giudicato il più importante d’Europa e pochi giorni fa è diventato italiano grazie a Paolo Piana, un imprenditore biellese che guida la Sinterama, 120 milioni di euro di fatturato. Quello di Piana è sicuramente un blitz ma fa parte di una mutazione della chimica italiana che vede protagonisti tanti industriali medi, o addirittura piccoli, diventati decisivi in un business tradizionalmente dominato dai colossi. I nomi delle new entry dicono poco al grande pubblico, si chiamano Endura, Coim, Intercos, Zobele, Sapio, Acs-Dobfar, Clerici Sacco e P&R. Producono vernici, adesivi, cosmetici, detergenti e rappresentano la seconda vita dell’industria chimica, la vittoria della specializzazione sulla dimensione. Quando in Italia si parla del settore, il pensiero di tutti corre ai grandi impianti petrolchimici del Novecento industriale, a cattedrali dell’impresa come Montedison, Enimont, Snia, Caffaro, fino al disgraziatissimo impianto di Marghera (oggi Vinyls), e il giudizio che se ne trae è uno solo: siamo fuori gioco. Abbiamo sciupato le carte migliori negli anni 80, si dice, e da allora abbiamo assistito a un lento e inesorabile declino, se non addirittura a una deindustrializzazione. Persino la bibliografia accademica che analizza il comparto è rimasta nostalgicamente ferma agli anni che furono. I fornitori del made in Italy Ma è davvero così? Le nostre fortune si sono giocate cinque o sei lustri orsono e da allora non abbiamo toccato più palla?
(continua a leggere sulla rassegna del Ministero dell’Economia)