Paola Mastrocola: «Togliamo il disturbo»
Esce il 17 febbraio per Guanda «Togliamo il disturbo», il nuovo libro di Paola Mastrocola
di paola mastrocola
Noi sghembi
C’era un geniale programma della Rai, si chiamava Specchio segreto e andò in onda nel 1965, poi in replica nel 1977: veniva piazzata una telecamera nascosta, e un attore interagiva con persone comuni che non sapevano di essere riprese. Il risultato erano scenette comicissime, scanzonate e surreali. Ad esempio quella in cui il regista Nanni Loy entrava in un bar, faceva finta di essere uno come gli altri, prendeva una brioche al banco e, con fare indifferente, la intingeva nel cappuccino dell’ignaro avventore che gli stava accanto.
Ci sono norme dell’interazione sociale che non hanno neanche bisogno di essere scritte tanto sono scontate: non si inzuppa la propria brioche nel cappuccino altrui! Così come non si va in mutande al ristorante, e non si fa la lingua ai passanti. Non si fa, ecco, appunto. Mi sono spesso sentita così, scrivendo questo libro: come una che al bar prende una brioche e la intinge nel cappuccino di un altro. Mi sono sentita scorretta e storta, inappropriata e sconveniente, e fuori posto. Mi girava in testa un costante, opprimente « non si fa », un’autocensura preventiva che però non preveniva un bel niente, un sottile senso di colpa senza effettive colpe… Non stavo trasgredendo le normali regole del vivere civile; certo è, però, che stavo pensando cose che non bisogna pensare, né dire, né vedere.
Ma io le vedevo. Come facevo a non dirle? E come facevo a non pensare le cose che mi veniva da pensare, vedendo quel che vedevo?
E così, sono andata avanti. Ci ho messo un tempo piuttosto lungo, è stato un continuo andirivieni mentale, spossante. Ma sono arrivata fino alla fine. Il risultato è questo libro, diviso in tre (come la Gallia). La prima parte e` descrittiva, sono le cose che ho tutti i giorni sotto gli occhi: i nostri giovani a scuola, per strada, al bar, al ristorante, nelle piazze alle tre di notte, nonstudianti, assenti, chattanti. Le cose come stanno, insomma, sotto gli occhi di tutti ma che molti diranno che non stanno affatto, non sono, me le sono inventate: perché non è detto che vediamo le stesse cose, un albero io lo vedo verde e tu magari giallo, la realtà in sé non esiste, il mondo è interpretazione… La seconda parte è una specie di ricostruzione storica di come è andata, a partire dagli anni Sessanta fino a oggi. Un bel viaggetto da don Milani alla Gelmini. E questa sì, come negarlo?, è una mia personale ricostruzione: nel senso che molti, di sicuro, ricostruirebbero in un altro modo. La terza parte è quella a cui tengo di più.
Forse ho scritto il libro per poter arrivare lì, a dire quel che vorrei. Ci penso da tanti anni. Potrei dire: sono le mie idee radicate, sulla vita, la società , i giovani, la scuola, la cultura, i libri, il futuro… A proposito, mi è parso di aver trovato niente meno che una soluzione per il futuro… Qualcosa che ha a che fare con la felicità dei giovani, la loro libertà di scelta. Insomma, la terza parte è la mia personale « modesta proposta »: in poche parole, lì vi dico come farei io se governassi l’universo, quale scuola mi inventerei. Ed è lì l’idea che non bisognerebbe avere, scorretta, inappropriata, fuori posto. L’idea sghemba, direi. Non bella dritta come le idee degli altri. Avete presente un’autostrada gigantesca e lineare dove vanno tutti avanti belli dritti, e poi invece delle viuzze laterali, oblique, stravaganti, irregolari, discrepanti, che se ne vanno chissà dove un po’ per conto loro… Ecco, idee sghembe: quelle che non dovremmo nemmeno cominciare a pensare. Idee scorrette. Direi culturalmente, più che politicamente, scorrette. Sì, esiste oggi un culturally correct ingombrante, greve. Siamo intrisi fino al midollo di idee sulla cultura e sulla scuola neutralmente buone, quiete, grigie, tranquille, che si possono cioè tranquillamente avere, che vanno sempre bene perché le abbiamo tutti, e quindi non si fa brutta figura a dirle, anzi, aprono ogni porta e non increspano mai il mare della nostra vita sociale. Idee che però, secondo me, non abbiamo mai veramente pensato. Idee ricevute, non nostre. Nel senso che le abbiamo ricevute da altri, ma non sappiamo più bene né da chi né quando.
Forse erano già lì da qualche parte, pronte all’uso: una specie di preˆt à penser. Le abbiamo indossate, e adesso fanno parte di noi e non le mettiamo mai più in discussione: e infatti dominano il nostro mondo. Col tempo, hanno formato strati e strati, fino a costruire una specie di cappa pesante che adesso ci opprime. Come il guscio di una tartaruga opprime la tartaruga (non a caso va così lenta…), ma le fa anche da casa. Eh sì, perché le idee comuni non nostre sono anche molto calde e protettive, rassicuranti, consolanti. Viviamo tutti sotto una cappa, come in una confortevole casa sottovetro, un enorme barattolo cosmico comune. Che però è invisibile. Non mi piace vivere sotto una cappa e fare la tartaruga. Lo trovo soffocante. Soprattutto una cappa così massiccia, stratificata da anni e anni di incrostazioni mentali collettive. Volevo provare a uscire, andare a guardare il sole, e così mi sono permessa di avere delle idee culturalmente scorrette. Anche a costo di rimanere lì, inerme, senza guscio. Insomma, ho scritto questo libro. Dico le cose che vedo e le cose che penso a partire da quelle che vedo.
Tutto qui, non c’è altro. Il problema è soltanto che quel che vedo è così enorme, così fuori misura e anche doloroso, che viene da ignorarlo. Per non stare tanto male, viene da fare come se non ci fosse.
Lo so. Ma guardare è un nostro dovere preciso. Guardare tutti insieme. Anche a costo di far saltare qualche pezzo della nostra quieta e così compatta esistenza.
I born digital
Nel mondo, fuori dalla scuola, regna il Web. Siamo nell’era di Internet, dell’information technology, del pc.
Il computer è un dio, uno e trino: Internet, Google e Facebook.
Internet: la rete planetaria di interconnessione globale, immenso scatolone che contiene tutto l’esistente, lo rende accessibile e permette di raggiungerlo attraverso legami, rimandi, collegamenti infiniti. Google: l’onnipotente motore di ricerca che va a scovare quel che vuoi. Facebook: la piazza, il mercato, il Luogo di tutte le relazioni, contatti, rapporti d’amicizia, d’amore o di lavoro. Una rete, un motore e una piazza: il Potere, il Sapere, l’Amore.
Tre dee: Era, Atena, Afrodite. Con il corredo di sottodei e ninfe che popolano animisticamente l’universo-computer: Wikipedia, Google Earth, Twitter… I ragazzi sguazzano in questo universo, lo dominano: sono i signori del Web. Sono i born digital, l’Internet generation. Una nuova stirpe di umani. Nessuno sa ancora bene come si stiano evolvendo, ma è chiaro che nulla sarà più come prima.
Neuroscienziati, studiosi della Rete e della comunicazione, computer scientists, futurologi internazionali stanno studiando l’impatto che le tecnologie digitali hanno sulla mente umana e sul comportamento dei nuovi giovani. Nulla è certo. Ma pare che si tratti di un vero e proprio cambiamento antropologico. Si stanno acquisendo nuove abilità mentali: dal pensiero non sequenziale al multitasking. Pare che la diversità sia persino rilevabile clinicamente: la risonanza magnetica può ora evidenziare modificazioni alla corteccia cerebrale. Dall’homo sapiens all’homo videns all’homo zappiens.
Siamo di fronte a una nuova specie umana con la mente « ricablata », resistenze superiori, intrecci neuronali più complessi e un approccio non lineare al pensiero e al lavoro,
reazioni più rapide agli stimoli, miglioramento dei riflessi e dei processi collaborativi…
Se questo è vero, tutto ciò che ancora ci affanniamo stupidamente a insegnare a scuola è davvero obsoleto e patetico.
Nonché obsoleta e patetica la scuola stessa. Che, quindi, andrebbe abolita o drasticamente cambiata. Per esempio, che senso avrebbe ancora l’ortografia? Perché mai incaponirsi sulla necessità vitale di un apostrofo? Cos’è un apostrofo a confronto delle innovazioni strabilianti del Web? Che senso avrebbero ancora complemento oggetto e predicato nominale, avverbi, congiunzioni, il pronome che, la sintassi dei casi, il periodo ipotetico, i pluralia tantum, Cesare che conquista la Gallia, il Sabato del villaggio da studiare a memoria? Tutto si trova nel Web, non è più necessario nemmeno avere una memoria, basta saper usare un motore di ricerca.
Anche scrivere: non serve imparare a strutturare il pensiero e a esprimerlo logicamente in sequenze dotate di senso compiuto; non importa imparare a dire ciò che si pensa, ciò
che si prova: nel Web esiste tutto, tutti i libri già scritti, e soprattutto i testi che planetariamente si scrivono ogni giorno e sono disponibili nei siti, nei blog, nei social network: basta accedere, avere l’indirizzo, entrare, avere la chiave, accreditarsi, digitare la password e poi si prende a destra e a manca, si fa il copia-incolla e si costruiscono testi sempre nuovi e sempre diversi. Si usa il Web, l’infinito patrimonio ora a disposizione di tutti, si manipola, si linka, si copia, si compila. Esistono le griglie, gli schemi, i fac-simile preconfezionati.
Non importa nemmeno conoscere la propria lingua. Non esiste più lo scrivere corretto o scorretto: concetto desueto, incomprensibile. Quando mi affanno a correggere i loro orripilanti dettati ortografici e compiti di analisi logica, i miei allievi mi guardano allibiti: ma che problema c’è? Esiste il
correttore automatico… E quando correggo i loro temi sconclusionati, affettuosamente mi consolano: non si preoccupi, prof, e quando mai dovremo saper scrivere? Anche per trovar lavoro, un curriculum lo troviamo già fatto su Internet.
Sono cari e comprensivi. Ma soprattutto, hanno ragione. Non devono imparare più niente, il sapere viene loro gentilmente offerto, servito all’istante bell’e caldo, documenti predefiniti, cibo predigerito, prodotti preconfezionati. Basta cercare, trovare, scaricare. Dentro i computer, abitano dei gentilissimi correttori che molto automaticamente si prendono il disturbo di correggere gli errori. Per esempio, quando scrivo Pasolini, mi correggono in « pisolini ». È un problema? Volete mica che un computer sappia chi e “Pier Paolo Pasolini”?
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Esce il 17 febbraio Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, il nuovo libro di Paola Mastrocola.
Mastrocola vive a Torino, dove insegna Lettere in un liceo scientifico. Fino al 1999 ha pubblicato poesie e saggi sulla letteratura del Trecento e Cinquecento. Dal 2000, per Guanda ha pubblicato cinque romanzi (La gallina volante, Palline di pane , Una barca nel bosco, Più lontana della luna e La narice del coniglio), il pamphlet narrativo E se covano i lupi, il romanzo-favola Che animale sei?