«Tornerò a Google, se non mi licenziano»
Il rapporto delle aziende con l'attivismo politico dei loro impiegati, che a volte può danneggiarle
Wael Ghonim ha 30 anni, è egiziano ed è un dipendente di Google, responsabile per il marketing di tutto il Medio Oriente. Era sparito il 28 gennaio, e quello che si sapeva di lui era soltanto questo. Lo avevano arrestato le autorità egiziane, che lo hanno rilasciato il 7 febbraio. Lui ha raccontato di essere stato arrestato da alcuni uomini in borghese mentre andava a una manifestazione in piazza Tahrir e di essere stato interrogato per 12 giorni. Il motivo del suo arresto era il suo attivismo online: Ghonim è tra i creatori di una pagina di Facebook che aveva radunato e diffuso le proteste alla vigilia delle manifestazioni del Cairo e di una serie di siti internet fondamentali nella circolazione delle informazioni tra i manifestanti nei giorni della rivolta.
Appena rilasciato, Ghonim è stato intervistato dalla tv privata egiziana DreamTV, e le sue parole hanno emozionato e motivato i manifestanti, trasformando di fatto un dirigente locale di Google nel più visibile punto di riferimento delle proteste. Questa settimana è stato intervistato da 60 Minutes, storico talk show americano domenicale di CBS, e alla giornalista Katie Couric ha detto così:
“Quelli di Google non sapevano niente di tutto questo, e anzi quando ho preso le ferie per andare al Cairo non sapevano che avevo intenzione di partecipare alle proteste. Quando la cosa è diventata di dominio pubblico, ho parlato con l’azienda: loro mi hanno suggerito di mettermi in aspettativa, io ho suggerito loro la stessa cosa e penso sia stata la cosa più giusta. Ora sarò onorato di ricominciare a lavorare a Google, se non mi licenziano”
Ghonim ha detto l’ultima battuta scherzandoci su, ma Google ha risposto istantaneamente su Twitter:
Siamo incredibilmente orgogliosi di te, Ghonim, e ovviamente ti daremo il benvenuto quando sarai pronto per tornare al lavoro.
Insomma, Ghonim non rischia di essere licenziato da Google. Questa storia però fa discutere del rapporto tra le aziende e la vita privata dei loro dipendenti, specie nel momento in cui quella vita privata raggiunge una notorietà tale da poter coinvolgere o addirittura danneggiare la società. Solitamente le aziende tendono a stare il più possibile alla larga dalle polemiche politiche: il loro fine è generare profitti e questo spesso rende necessaria la coltivazione di buoni rapporti coi governi, sia che questi durino decenni sia che cambino ogni tre anni. Allo stesso modo, però, la fattiva collaborazione con regimi efferati e dittatoriali non è certo proficua per il business, e può provocare contestazioni e altri guai. In questo genere di situazioni le aziende tentano di essere o diventare invisibili: sparire dal radar, esistere e lavorare senza che nessuno se ne accorga. Il fatto che un dipendente abbia un ruolo politico di qualche rilevanza – e il fatto che, come nel caso di Ghonim, il suo nome si accompagni sempre alla sua professione e al nome della sua società – può avere diverse conseguenze nelle attività dell’azienda, che per questo fanno di tutto per evitare di trovarsi in simili situazioni.
Bisogna dire che se c’è un’eccezione quella è certamente rappresentata da Google, che l’azienda il cui motto è “Don’t be evil” e il cui cofondatore, Sergey Brin, ha sospeso tutte le attività dell’azienda in Cina a seguito della censura del governo nei risultati del motore di ricerca e degli attacchi ricevuti dalla Cina. Allo stesso modo, le aziende ovviamente non hanno alcun appiglio legale per controllare la vita privata dei propri dipendenti, finché questi non partecipano in attività illegali o sabotano le loro attività, né tantomeno le loro opinioni politiche e la loro libera espressione.
La questione ha contorni più sfumati, insomma: non si parla di licenziamenti né di giudicare cosa si può fare e cosa no. Molte aziende americane hanno sostenuto a lungo che, per quanto ovviamente lecito, fare business in determinate parti del mondo – la Cina, il Medio Oriente, l’Africa – avanzando anche richieste politiche sul fronte della democrazia e dei diritti umani può essere controproducente. Può alienare la fiducia degli interlocutori, minare l’influenza della società e in ultima istanza può portare all’estromissione dal paese, con tanti saluti sia al business che ai diritti umani. Le stesse aziende sostengono che è molto più utile avere uno stile giusto e meritocratico, trattare allo stesso modo tutti i dipendenti indipendentemente dalla loro religione, dal loro genere, dal loro orientamento sessuale o dalle loro idee politiche, e lasciare che sia la forza dell’esempio a influenzare gli impiegati e la società attorno all’azienda.
Nel caso di Google, i due piani si sono intrecciati: un’azienda moderna e nota per il suo ambiente amichevole e poco ortodosso, un suo dirigente in prima linea nelle contestazioni a un governo non democratico. C’è poi un terzo piano di lettura, per Google: lo strumento usato da Wael Ghonim durante le proteste non è altro che lo strumento del successo imprenditoriale di Google. Informazioni trasportate e trasmesse su Internet. Il tutto a favore di un movimento che cercava più giustizia e più libertà, sotto gli occhi del mondo intero. Insomma, mettendo tutti i fattori sul piatto della bilancia, alla fine il bilancio per Google è probabilmente più che positivo.
Questo chiude la questione particolare ma non quella generale, scrive il Wall Street Journal. Preso atto della libertà di un dipendente di perseguire liberamente i propri obiettivi politici, entro i limiti stabiliti dalla legge, e dell’impossibilità di un’azienda di impedirglielo, anche se questo potrebbe nuocere ai suoi affari, cosa sarebbe successo se Ghonim fosse stato un attivista pro-Mubarak? Google avrebbe accettato le sue attività? Oggi lo accoglierebbe a braccia aperte, se questo avesse usato il suo talento e le sue competenze per rafforzare il regime, invece che per indebolirlo?
foto: Chris Hondros/Getty Images