In Sudan si mette male
Come si temeva, l'esito del referendum sulla secessione ha riaperto le violenze: ieri sedici morti
Sedici persone sono rimaste uccise ieri a causa di uno scontro tra l’esercito del Sudan e i ribelli del Jonglei, una regione del Sud Sudan. Si interrompe quindi il cessate il fuoco che era stato raggiunto il mese scorso. L’attacco però non sarebbe stato portato avanti dall’Esercito per la liberazione del Sudan, il più grosso movimento indipendentista e ribelle della regione, bensì dagli uomini di George Athor, un ex membro che dallo scorso aprile lotta per conto suo.
Il portavoce dell’esercito per la liberazione del Sudan ha detto che gli uomini di Athor, oltre a essere gli autori dell’attacco, stanno piazzando delle mine antiuomo al confine tra nord e sud. Athor però ha detto al Sudan Tribune che non ha nulla a che fare con le violenze, che invece sarebbero opera dell’esercito per la liberazione del Sudan. Il cessate il fuoco tra il governo e i ribelli era stato raggiunto a gennaio, a pochi giorni dall’inizio del referendum sulla secessione tra il nord e il sud del paese. Lunedì scorso sono stati diffusi i risultati finali: il 99 per cento dei votanti ha optato per la secessione del sud, come era ampiamente previsto.
In vista della separazione ufficiale, rimangono aperte alcune domande. Come verranno spartite le risorse petrolifere? Chi si accollerà il debito di circa ventotto miliardi di euro accumulato dalla nazione? Che cosa ne sarà di Abyei, la regione più ricca di petrolio che si trova esattamente al confine tra nord e sud del paese? Ci sono poi una serie di questioni solo apparentemente minori, che a loro volta rischiano di alimentare lo scontro: c’è da capire quale cittadinanza attribuire ai nomadi che abitualmente si spostano da nord a sud nell’arco dell’anno; c’è da capire come organizzare gli scambi commerciali tra le due nuove nazioni; c’è da capire che cosa faranno le decine di migliaia di soldati arruolati nell’esercito centrale che verranno congedati da un giorno all’altro; e c’è da capire su quali risorse potranno contare tutte quelle piccole città e villaggi del sud che hanno sempre dipeso da Karthoum per i loro rifornimenti elettrici. Infine, c’è la gigantesca questione dei rifugiati: ci sono circa due milioni di persone di origine meridionale che vivono al nord e che con la secessione saranno costretti a lasciare il paese. Secondo le Nazioni Unite, circa 400mila persone inizieranno a dirigersi verso sud subito dopo il referendum.
Nonostante la sua ricchezza petrolifera, il sud del Sudan è una regione estremamente povera, stremata dalla guerra civile e dalla totale assenza di investimenti da parte del governo centrale. I suoi oltre dieci milioni di abitanti vivono di agricoltura su territori prevalentemente desertici e i suoi abitanti vivono in media con meno di un dollaro al giorno. È la regione con la percentuale più alta di mortalità legata al parto e con il più alto tasso di analfabetismo (nove donne su dieci sono analfabete). Ha solo un malridotto ospedale per oltre cinque milioni di abitanti.
Il presidente scelto per il nascente stato meridionale è Salva Kiir, attuale presidente della stessa regione, che ha combattuto come ribelle durante la guerra civile. Finora è riuscito a fare in modo che l’esercito di liberazione del sud non interferisse nelle trattative con il nord in vista del referendum, ma se le cose dovessero andare male è molto probabile che i ribelli riprenderanno a combattere contro le forze di Karthoum. Entrambi gli eserciti hanno ripreso ad armarsi da mesi.