La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio – Episodio 5

Quinta parte del libro di Enrico Brizzi: conoscere qualcuno che è andato in tv, violenza made in Japan e videoregistratori

I tempi stavano cambiando. Tabù s’incrinavano col rumore sordo d’una cascata di ghiaccio pronta a rovinare a valle: adesso i compagni leggevano sotto l’ombrellone Bon ton di Lina Sotis e Come vivere – e bene – senza i comunisti.
Lo spiritoso volume era opera di Roberto D’Agostino, lo stesso che – vestito da bagonghi della new wave – faceva l’esperto di look per Renzo Arbore. Altre sue fatiche letterarie furono Libidine e Sbucciando piselli, prima che formasse per breve tempo la prima coppia trash della televisione italiana insieme a Vittorio Sgarbi, al quale negli anni Novanta avrebbe definitivamente ceduto la palma del «più sopravvalutato d’Italia».
Per consolarsi della perdita D’Agostino si cimentò nella regia, ma la sua pellicola Mutande pazze ottenne un’accoglienza sì entusiasta da indurre il mondo del cinema a non riavvicinarlo mai più; solo un nuovo mezzo di comunicazione anonimo e discreto come internet gli avrebbe riaperto una linea di credito, che il «lookologo» anni dopo sfruttò da par suo, creando il portale di gossip Dagospia.

Per andare in tivù, insomma, non serviva essere un genio: era lei, eventualmente, a farti apparire come tale. E se la tivù decretava che tu eri un genio, ti potevi chiamare Roberto D’Agostino o Frittello Maria Quaterni che tanto non cambiava un granché: eri tenuto in ogni caso a pubblicare, e al più presto, un libro d’inevitabile successo.
John Gardner, nel suo ingenuo Il mestiere dello scrittore, non ci aveva pensato.
E nemmeno il suo ex discepolo Raymond Carver, il leggendario padre del minimalismo americano, quando si era trovato a scrivere le sue indicazioni per aspiranti narratori, aveva fatto il benché minimo riferimento al consiglio più ovvio ed elementare: andare in televisione.
Furono il Silvio e Maurizio Costanzo ad aprirci gli occhi.
(Se hai un romanzo nel cassetto, perché affannarti a spedirlo agli editori?
Quelli rischiano di non capirlo!
E se lo capiscono è anche peggio, perché dopo vogliono pubblicarlo loro, che parlano difficile e ne vendono sì e no trenta copie!
Il dottor Costanzo, invece, parla chiaro ed è in grado di lanciarlo a dovere; lo sbatte davanti alle telecamere e il tuo libro entra in tutte le case italiane, evitando il farraginoso giro di editori, critici e altra gente pallosa.)

Si imparò così che illustri carriere letterarie, almeno in termini di copie vendute, potevano avere inizio da un casting.
Sì, i tempi stavano cambiando davvero: guardare la televisione non era più peccato.
Persino nell’imminenza della cresima, o confermazione, ci si poteva distrarre con Superclassifica show, o ammirare i secchioni in felpa Best Company alle prese con il Doppio slalom di Corrado Tedeschi.
Il mio gruppo del catechismo era composto da telemaniaci gravi, e io stesso arrivavo sempre in ritardo per non perdermi il finale dell’incontro di catch, presentato su Euro Tv dalle voci senza volto di Tony Fusaro e Cristina Piras. Sul ring chiamato tatami si alternavano gli idoli Antonio Inoki e Gigante Baba, Tiger Mask – e cioè l’Uomo Tigre in carne e ossa – e un giovane visopallido di nome Hulk Hogan; erano belli, forti, battibili solo ricorrendo a qualche colpo basso, di quelli che non mancavano nel repertorio dei cattivissimi Animal Amagouchi e Rusher Kimura, André the Giant e Abdullah the Butcher.
Fra prese classiche, voli d’angelo, capriole e sediate in testa, il mio animo si preparava a migrare verso la rivelazione sa­cramentale, e io a farmi in qualche modo soldato di Cristo, come si era raccomandato il cardinal Biffi durante la sua visita in parrocchia.
Una volta scoperto se Inoki avrebbe mantenuto la cintura di campione, mi precipitavo fuori con la mia Bibbia sottobraccio: in ritardo ancora una volta!
Scampanellavo a casa di Iuri Giacobbi, anch’egli reduce dalla visione della violenza made in Japan, e percorrevamo di mezza corsa la salita verso gli archi dei portici di via Saragozza, un po’ ripassando i misteri gloriosi e un po’ gridando al vento i nomi esotici – «Enzugiri! Kizagiri! Spinning kick!» – delle nuove mosse appena apprese.
Il cardinale poteva essere fiero di noi.

Un sabato pomeriggio venimmo a sapere che il nostro catechista Lello Baracchi, un ventenne dalla lingua sciolta e il fisico bombato alla Balanzone, era stato selezionato per partecipare a un quiz in prima serata.
Finalmente qualcuno che conoscevo andava a trovare il signor Mike!
Noi più giovani spargemmo la notizia ai quattro venti, frati e diaconi si mobilitarono, e vennero organizzati gruppi d’ascolto in casa dei parrocchiani illustri per seguire la sua performance.
Qualcosa di straordinario stava per accadere.
Forse il ricordo è trasfigurato dall’enorme emozione, ma lo rivedo nettamente prendere posizione nello studio di Pentatlon, interloquire col massimo presentatore italiano e, subito prima di cimentarsi nel quiz, salutare tutta la parrocchia di San Giuseppe sposo, Bologna.
Stava succedendo davvero! E mica si lasciava mettere in castagna, il nostro Lello: rispondeva sicuro, evitava trabocchetti, avanzava sul ghiaccio sempre più sottile; lo vedemmo tutti, ammantato di sapere, mentre otteneva i complimenti del conduttore di quiz per eccellenza, e si proiettava verso premi sempre più prestigiosi.
La domenica seguente, dopo la messa delle ore dieci, trovammo posteggiata di traverso sul sagrato l’automobile lucidissima che il Baracchi aveva vinto in televisione.
Se volevamo, potevamo toccarla: era lì apposta, offerta ai fedeli come la prova concreta e incontrovertibile dell’esistenza del signor Mike.
Gli avessero suggerito o no le risposte – come insinuavano gli invidiosi – il mio catechista tornò da quell’esperienza cambiato: lo s’indicava a dito per la strada come con i calciatori e i cantanti («lui è quello di Mike Bongiorno!»), e fatalmente inorgoglì.
Da ragazzo umile qual era, adesso Lello vantava contatti con Columbro e Predolin, confidava retroscena, vaticinava. Non fosse stato un catechista, ti avrebbe raccontato anche di essersi scopato Carmen Russo.
A me Lello promise una partecipazione a Doppio slalom se solo avessi superato una prova di cultura generale da tenersi in parrocchia: trionfai, ed ero già pronto a far acquistare ai miei l’adatta felpa Best Company, ma purtroppo Corrado Tedeschi non mi fece mai sapere nulla.
Che andare in televisione fosse desiderabile mi sembrava ovvio – ti coprivano di regali! – ma solo allora mi resi conto che quel viaggio cambiava le persone, e il modo in cui gli altri le guardavano. Si diventava speciali, senza fatica e di colpo.
Ecco perché la lista d’attesa era tanto lunga.


Per non trascurare alcun aspetto della mia preparazione ­artistica, Lello mi coinvolse nello spettacolo del gruppo par­rocchiale.
Lui che aveva stretto la mano al signor Mike, e ancora ne riluceva, era ben lieto di condividere con noi young boys il suo know-how da outsider dello show business. ’Sti cazzi!
Nello specifico, il nostro gruppo di cresimandi avrebbe calcato il palco del cinema-teatro Bellinzona cimentandosi con un testo ai limiti dell’impossibile: non già Ibsen o Brecht, ma esattamente una parodia dello show televisivo Pronto, è la Rai?.
Non ricordo a chi toccarono i panni di Enrica Bonaccorti, ma per certo il sottoscritto si trovò a interpretare, davanti a un pubblico attonito di parenti e amici, Giancarlo Magalli.
Sorrisi tutto il tempo, anche mentre parlavo con un improbabile accento romano, e me la cavai così.
D’altronde non avevo lunghi monologhi: dovevo intervistare Iuri Giacobbi nei panni di un esausto Rocky Balboa – lui rispondeva solo: «Adrianaaa!» – e inscenare un duetto con LucaPietro Niccolis, che a sua volta aveva un incarico degno d’un camaleonte: imitare Gigi Sabani.
Dalla buca del suggeritore, la testa rotonda di Lello ci fissava senza tradire un’emozione: si alterò solo quando LucaPietro scordò la parte di Sabani che imitava Toto Cutugno, e rimase piantato al centro del palco, muto e fermo come una bitta sul molo.
«Italiano» prese a sussurrare, sperando che LucaPietro facesse due più due, e attaccasse come previsto «Lasciatemi cantare…».
«Tt Ctgn» gli suggerivo anch’io fra i denti, senza smettere di sorridere con la mia calotta da calvo sulla testa; il mio partner, pe­rò, stava per dare un significato nuovo al termine «défaillance».
«Lascià-temì cantàààre» aveva intonato a mezza voce Lello Baracchi, ormai disperato; avesse potuto sfondare la copertura della buca per salire sul palco, l’avrebbe fatto; così presi il toro per le corna e annunciai a gran voce: «Signore e signori, ora Gigi Sabani ci presenterà l’imitazione di Toto Cutugno!».
In quel momento preciso, però, LucaPietro, piangendo di stizza, stava abbandonando di corsa il proscenio per andarsi a nascondere.
L’onda di disapprovazione del pubblico fu qualcosa che potei percepire sulla mia pelle.
Lello Baracchi, prigioniero dentro la sua buca, mi fissava con uno sguardo da infartuato.
«L’emozione ha giocato a Sabani un brutto scherzo!» improvvisai. «Proseguiamo con lo spettacolo, Enrica Bonaccorti!»
Alla fine non ci piovvero addosso né fischi né petali di rosa, ma un ciclo storico si era compiuto sopra le nostre zucche di debuttanti: ormai era il teatro, persino quello parrocchiale, che imitava la televisione.

Guardare la televisione non era peccato, s’è detto, ma c’era una cospicua eccezione di nome Colpo grosso.
Umberto Smaila, dopo la lunga esperienza coi Gatti di vicolo miracoli e quella breve ma determinante di Quo vadiz?, era ormai uno showman maturo, perfettamente credibile nei panni di tenutario di casinò circondato da ragazze discinte.
Poiché  le reti maggiori non avevano da offrirgli un ruolo del genere, Smaila migrò con sotterraneo ma fragoroso successo su Italia 7, con la quale Fininvest aveva un contratto di fornitura programmi.
Giochi e scommesse dei concorrenti avevano come scopo quello di accumulare punti, che consentivano di spogliare progressivamente le «mascherine» o «ragazze Cin-cin», procaci bellezze perlopiù straniere, fra le quali la futura pornostar Zara White.
L’atmosfera apertamente lasciva del programma, i prolungati piani-sequenza della regia su cosce e seni nudi assecondavano la formula del gioco, che garantiva numerosi spogliarelli culminanti nel sospirato «colpo grosso»: la ragazza del caso restava allora completamente nuda, e vi lascio immaginare che razza di pugnalate fra casa mia e quella di Iuri Giacobbi.
L’indomani, le palpebre a mezz’asta, ripassavamo ad alta voce gli attimi salienti della trasmissione, ripercorrendo al rallentatore le curve della ragazza-ciliegia o di quella che sul reggiseno portava i mandarini, di «Esagerata» e «Scappatella»; fantasticavamo su un futuro nel quale il nostro benefattore Smaila ci avrebbe invitato nel suo locale, senza immaginare che un giorno ne avrebbe posseduto davvero uno, costoso e sempre affollato dai suoi tanti fan di allora.

E poi il miracolo accadde sotto i nostri occhi.
Come regalo per la cresima, a LucaPietro Niccolis era stato donato un sontuoso videoregistratore; passarono pochi giorni che Iuri ed io fummo invitati a toccarlo e odorarlo di persona.
«Be’, adesso facci vedere qualcosa» se ne uscì Iuri, mentre io proseguivo a saggiare la superficie lucida dell’oggetto per compiacere il padrone di casa.
«Si può vedere Rambo col finale cambiato?» proposi. «Quello dove perde, dico.»
Mi guardarono, non senza un perché, come fossi uno scemo.
«Non si può cambiare il finale dei film!» annunciò Iuri. «Lo sanno tutti!»
«Però si possono vedere all’indietro» puntualizzò LucaPietro. Poi, con la sua vocina gentile, mi domandò se potevo smettere di lordargli il videoregistratore con le mie ditate. Mi ritrassi e osservai l’aggeggio in controluce: di qualunque materiale fosse fatto, conservava memoria di chi l’aveva toccato.
«Ho Rocky IV» annunciò LucaPietro. «Possiamo vedercelo al contrario.»
«No, al rallentatore!» strillò Iuri. «Come i veri incontri di boxe, che dopo si vede la R sull’angolo dello schermo!»
«Qui non si vede» mise le mani avanti LucaPietro, e sfoderò la videocassetta.
«Io preferirei farlo andare avanti normalmente» chiarii. «Non l’ho ancora visto» mi giustificai.
«Così che gusto c’è, però!» fece il sofisticato Iuri.
Fermare l’immagine, riavvolgerla, rivedere una scena a piacimento: quel pomeriggio sperimentammo il miracolo facendo combattere all’infinito Rocky Balboa e Ivan Drago, ma presto imparammo che era ancora più divertente giocare di moviola e fast forward con Marina Lothar, Teresa Orlowski, l’onorevole Cicciolina e Moana Pozzi.