Lettera su Mirafiori
Sui cancelli, sulla sinistra e sul suo mestiere
di Giuseppe Provenzano
Caro Marco,
mi chiedevi della Fiat e della sinistra, quanto tempo fa? Qui le cose precipitano, e una settimana sembra un secolo – le questioni degli operai, del resto, sembrano sempre di “un secolo fa”.
Ehi, mi inviti ad un pensiero ed una discussione enormi. La prendo stretta e lunga, e parto da dove posso: un piccolo piazzale, a Mirafiori. Mi chiedi di fare un passo avanti; ne farei uno indietro piuttosto: da che parte eravamo, a Mirafiori? Io stavo dalla parte del NO all’accordo, ma in quel piazzale mi sono ritrovato prima di tutto di qua dal cancello, tra giornalisti e militanti. La vera differenza non è da che parte si sta, ai cancelli; è da che parte si sta, dei cancelli.
Di qua o di là dal cancello
Per questo parole come “se fossi un operaio voterei SÌ” hanno macchiato la trama già sfibrata dei rapporti tra sinistra e mondo operaio; mentre altri tessono un “tappeto rosso” e proclamano “senza se e senza ma” appoggio a Marchionne. “Loro che ne sanno del lavoro in fabbrica, della linea di montaggio?”; “ci venissero loro qui” – dicevano gli operai. Ed è comprensibile che molti altri siano stati offesi da chi dichiarava: “se fossi un operaio voterei NO”. “Che ne sa della vita di un operaio, dell’affitto da pagare”; “lo perdesse lui il lavoro”. I dirigenti, nella storia della sinistra, hanno fatto sempre i conti con la loro condizione sociale quando ambivano a rappresentare (e parlare per) altri ceti sociali. È una norma che dovrebbe valere ancora oggi: non per un riflesso ideologico, per decenza.
Sono stato alla Porta 2 di Mirafiori, il giorno del referendum, e ho trovato quello che avevo lasciato a Pomigliano. Nella notte, caduta l’illusione della vittoria del NO, ho lasciato quello che avevo trovato a Pomigliano. Non era, dunque un’«eccezione»: e ci voleva la sprovvedutezza (altrimenti dovremmo pensare alla furbizia, alla malafede) di un vice segretario del PD per affermarlo. L’Italia ora riscopre gli operai, ma non è mai un’eccezione la loro solitudine e il loro coraggio: dire NO al ricatto o dire SÌ a quelle condizioni di lavoro – lo stesso coraggio.
Dopo Pomigliano, però, non ci sono alibi: nessuno può dirsi colto di sorpresa. Non si dovevano far votare i lavoratori un’altra volta (seconda di una lunga serie, a partire da Cassino, Termoli e Melfi, come annunciato da Marchionne che ha già contagiato Federmeccanica) sulla scelta più vecchia di sempre: accettare le condizioni del padrone o la fame (il mutuo da pagare, i figli d’ogni età da mantenere, eccetera). Parlo di un ricatto antico, e può darsi che appaia retorica vetero-sindacale. Vorrei guardarmene bene, in realtà, tanto più che la dialettica tra sindacati non restituisce la complessità (o la semplicità) del voto operaio. La maggioranza dei lavoratori non è sindacalizzata, e ha votato senza possibilità di scegliere (più spesso, il SÌ); ha scelto (quasi sempre, il NO) nella convinzione – o forse l’intima speranza – che altri avrebbero votato (il SÌ, dunque); e molti, giustamente, avranno pensato a sé e alle loro vite, dentro e fuori lo stabilimento, rifiutando le “conseguenze generali per l’Italia”, per tutti gli altri giorni in cui l’Italia non ha pensato a loro.
Sapevano gli operai che in gioco erano i diritti, le relazioni in azienda che volgono verso un nuovo autoritarismo che ammoderna bagni e docce e introduce una burocrazia e i suoi guardiani nella fasi di lavoro, tutto il contrario della flessibilità. Parole esose, vero? Vedi un po’: se in una postazione, un operaio, nella combinazione di operazioni assegnate e tempi, per un qualsiasi imprevisto o specifica incapacità, o perché in sovraccarico muscolare o tendineo, non riusciva a completare il ciclo, poteva chiamare il rappresentante, che parlava col tempista, col team leader, e alla fine trovavano una soluzione (cambiando postazione al lavoratore, togliendo un’operazione, abbassando la saturazione, e così via). Con la modernità dell’accordo, adesso, l’operaio dovrà fare un reclamo scritto ad un Ente preposto al controllo dei tempi, ed eventualmente ad una Commissione, ed aspettare un verdetto che può arrivare anche 20 giorni dopo la sua richiesta. Nel frattempo, ovviamente, dovrà continuare a fare le stesse operazioni negli stessi tempi, e se si ferma… beh, può scattare la clausola di esigibilità. Lo sapevi, questo? Io non lo sapevo. E una buona misura d’ingiustizia mi pare diventi quel movimento in meno o in più.
Marchionne canta vittoria per un SÌ risicato, e il suo ruolo (cioè, la sua parte in tragedia) glielo impone. Però ha perso, per le proporzioni del risultato rispetto a quelle del ricatto, per quello che si legge dentro il voto: la maggioranza contraria nei reparti (montaggio e lastrature: la linea, la “catena”) in cui la nuova “metrica” del lavoro avrà ripercussioni decisive. Questo referendum, più che le divisioni sindacali, ha fatto esplodere quelle materiali, assai più gravi: operai contro impiegati (di qua dal cancello li hanno chiamati “traditori”…), reparti contro reparti, montaggio contro verniciature; minoranze contro minoranze, fino alla minoranza di uno, diviso da se stesso, che argomenta un SÌ o un NO con le stesse ragioni, preoccupazioni, rabbie, paure. Mentre telecamere e riflettori puntati cercavano lacrime, grida e scontri.
“Non siamo animali allo zoo! Gli operai capiscono tutto, meglio di tanti sindacalisti che nei programmi non sapevano di cosa parla l’accordo. Fuori dai cancelli, ognuno ha la sua vita, le sue priorità, le sue necessità – e a questo punto decide per sé. Forse questo è già perdere. Però, che vergogna: ora ci dicono che da noi dipende il futuro di Torino, dell’Italia. Ma l’Italia dov’era fino a ieri? E dove sarà domani?”. L’indomani, sappiamo già dov’era. “Marchionne non dice qual è il suo piano. Noi, per non perdere il lavoro, saremmo pure pronti a fidarci. Ma chi fa da garante? L’unica cosa certa è che andiamo in cassa per un anno”. Tra un anno, se la misteriosa strategia fallisse o le esigenze del mercato cambiassero, chi potrà richiamare l’azienda agli impegni? “Lui vuole l’esigibilità da parte nostra. Ma a noi, l’esigibilità, chi ce la garantisce? Ci dicono che Mirafiori è l’Italia. Ma ce la dobbiamo vedere noi. Se vince il NO, invece, il problema tornerà ad essere di tutto il Paese. E magari la politica tornerà a fare il suo mestiere”.
Nella città che farà bella mostra di sé per i centocinquanta anni dell’Unità, è proprio l’Italia che è mancata. Non s’è vista, nelle settimane precedenti. Non si vedeva niente, quel giorno, con la nebbia che a pomeriggio s’è addensata su Torino fino a notte. “Non c’era da tempo una nebbia così”, dicevano tutti. “Non si vedeva dal 1980”, dicevano da questa parte del cancello i militanti – quasi tutto, per loro, era “come nel 1980”. Era una questione degli operai, il referendum. Delle loro famiglie o dei loro desideri – cioè, del punto fino al quale possono spingere i loro desideri. Era una questione più grande di loro. Come a Pomigliano. (A Termini Imerese è questione di nessuno). Alla fine, hanno vinto i SÌ, e avranno “salvato” Torino, l’apparato industriale, la modernizzazione. Marchionne farà il suo investimento, e l’Italia dell’auto avrà un posto nel mondo. Però qualcosa si è visto, in una nebbia così.