Fumo negli occhi
Il PresdelCons scrive al Corriere e offre un patto a Bersani, senza dire una parola su quella storia lì
Il Corriere della Sera di questa mattina pubblica una lettera di Silvio Berlusconi, che dà al giornale il titolo di prima pagina ma finisce poi a pagina 9, a dimostrazione che in questo momento ci sarebbero altre cose di cui parlare. Il PresdelCons, infatti, non scrive al Corriere per dire cosa ha intenzione di fare quando tra due settimane potrebbe trovarsi a dover rendere conto in tribunale dell’accusa di prostituzione minorile, né per raccontare cosa l’Italia sta o non sta facendo per dare il suo contributo alla definizione della crisi politica in Egitto.
Berlusconi fa finta che tutto questo non esista e scrive al Corriere per discutere del suo argomento preferito di questi giorni, cioè la sua contrarietà all’inserimento di una tassa patrimoniale, e fare a Bersani un’offerta per “agire insieme al parlamento, in forme da concordare, per discutere senza pregiudizi ed esclusivismi un grande piano bipartisan per la crescita dell’economia italiana”. In tutto questo e con una notevole faccia tosta, si dice pure “preoccupato come e più del presidente Napolitano” dalla “particolare aggressività che, per ragioni come sempre esterne alla dialettica sociale e parlamentare, affligge il sistema politico”.
Gentile direttore,
il suo giornale ha meritoriamente rilanciato la discussione sul debito pubblico mostruoso che ci ritroviamo sulle spalle da molti anni, sul suo costo oneroso in termini di interessi annuali a carico dello Stato e sull’ostacolo che questo gravame pone sulla via della crescita economica del Paese. Sono d’accordo con le conclusioni di Dario Di Vico, esposte domenica in un testo analitico molto apprezzabile che parte dalle due proposte di imposta patrimoniale, diversamente articolate, firmate il 22 dicembre e il 26 gennaio da Giuliano Amato e da Pellegrino Capaldo. Vorrei brevemente spiegare perché il no del governo e mio va al di là di una semplice preferenza negativa, «preferirei di no», ed esprime invece una irriducibile avversione strategica a quello strumento fiscale, in senso tecnico-finanziario e in senso politico.
Prima di tutto, se l’alternativa fosse tra un prelievo doloroso e una tantum sulla ricchezza privata e una poco credibile azione antidebito da «formichine», un gradualismo pigro e minimalista nei tagli alla spesa pubblica improduttiva e altri pannicelli caldi, staremmo veramente messi male. Ma non è così. L’alternativa è tra una «botta secca», ingiusta e inefficace sul lungo termine, e perciò deprimente per ogni prospettiva di investimento e di intrapresa privata, e la più grande «frustata» al cavallo dell’economia che la storia italiana ricordi. Il debito è una percentuale sul prodotto interno lordo, sulla nostra capacità di produrre ricchezza. Se questa capacità è asfittica o comunque insufficiente, quella percentuale di debito diventa ingombrante a dismisura. Ma se riusciamo a portare la crescita oltre il tre-quattro per cento in cinque anni, e i mercati capiscono che quella è la strada imboccata dall’Italia, Paese ancora assai forte, Paese esportatore, Paese che ha una grande riserva di energia, di capitali, di intelligenza e di lavoro a partire dal suo Mezzogiorno e non solo nel suo Nord europeo e altamente competitivo, l’aggressione vincente al debito e al suo costo annuale diventa, da subito, l’innesco di un lungo ciclo virtuoso.
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foto: Roberto Monaldo / LaPresse