Come sta andando Obama
Dopo la sconfitta alle elezioni di metà mandato, l'amministrazione ha ritrovato consensi e popolarità
Una delle regole non scritte di tutte le elezioni è che dopo una tornata elettorale arriva la cosiddetta “luna di miele”, il periodo di grande popolarità a favore dei vincitori della consultazione. È un fenomeno fisiologico e in parte inevitabile, perché chi si è appena insediato non ha errori e mosse impopolari di cui rendere conto ma solo proclami, promesse ambiziose e solenni celebrazioni della vittoria, mentre chi perde solitamente è impegnato a dirsi in cosa ha sbagliato, magari litigando.
Nel caso delle ultime elezioni statunitensi di metà mandato, la regola sembra non aver funzionato. Poche settimane dopo la vittoria dei repubblicani, che hanno strappato la maggioranza alla Camera ai democratici, il dato sulla popolarità di Obama ha cominciato a salire, arrivando a livelli che l’amministrazione non vedeva da parecchi mesi, prima dell’inizio dello sfinente dibattito nazionale sulla riforma sanitaria. Oggi la situazione nei sondaggi è florida come tre mesi fa non si poteva nemmeno immaginare. Secondo i sondaggi degli ultimi quindici giorni, l’approvazione degli elettori nei confronti di Obama è tornata sopra la soglia del 50 per cento, che il presidente aveva abbandonato molti mesi fa. È molto rilevante soprattutto il balzo fatto da Obama tra gli elettori indipendenti, storicamente determinanti nelle elezioni presidenziali. I repubblicani non hanno goduto di alcun balzo a seguito della loro vittoria e tutti i maggiori possibili avversari di Obama nel 2012 – Romney, Huckabee, Palin – hanno tassi di approvazione stagnanti tra il 30 e il 40 per cento.
Le ragioni di questo balzo hanno a che fare innanzitutto con tre importanti provvedimenti legislativi che l’amministrazione è riuscita a fare approvare durante la cosiddetta lame duck session, cioè il periodo che intercorre tra le elezioni di metà mandato, all’inizio di novembre, e l’insediamento del nuovo Congresso, a metà gennaio. Una fase solitamente improduttiva che i democratici sono riusciti ad affrontare al meglio. Prima è arrivato l’accordo sul rinnovo dei tagli fiscali: i democratici hanno acconsentito alle richieste dei repubblicani sui tagli agli americani più ricchi ma in cambio hanno ottenuto praticamente un secondo pacchetto di stimolo all’economia, sussidi di disoccupazione, tagli alle tasse del ceto medio, sgravi fiscali per le piccole e medie imprese. Poi c’è stata l’abolizione del don’t ask don’t tell, la norma che impediva agli omosessuali di prestare servizio nell’esercito a meno che questi non nascondessero il proprio orientamento sessuale: un risultato che la comunità LGBT agognava da anni e che è servito a ricucire parzialmente il rapporto di Obama con l’ala più liberal dei democratici. Infine l’approvazione dello START, il trattato con la Russia sulla riduzione delle armi nucleari sul quale Obama aveva incardinato la propria politica estera.
Un altro fattore importante nella riconciliazione di Obama con molti elettori americani è stato il suo discorso durante la cerimonia in onore delle vittime della strage di Tucson. Un discorso alto e solenne, che secondo la totalità degli osservatori ha interpretato perfettamente i sentimenti e i desideri degli americani. Persino alcuni spietati oppositori del presidente – come Glenn Beck o John McCain – si sono congratulati con Obama per quel discorso, che ha permesso a Obama di stagliarsi sulle polemiche tra democratici e repubblicani e mostrarsi come guida responsabile e affidabile. I segnali incoraggianti forniti dall’economia americana e il recente discorso sullo Stato dell’Unione hanno fatto il resto, consolidando i buoni risultati dei mesi precedenti.
La strada da qui al 2012 è ancora lunga e questi numeri cambieranno ancora: quando arriveranno le prime candidature ufficiali da parte dei candidati repubblicani e quando l’amministrazione comincerà a fare i conti con la maggioranza repubblicana alla Camera. Le cose oggi sembrano però messe sulla buona strada, forse anche grazie alla sconfitta alle elezioni di metà mandato.
Per un presidente, infatti, avere il congresso controllato dalla propria parte politica può essere un vantaggio ma anche una grana: basti pensare alle difficoltà incontrate da Obama durante questi due anni e a come invece Clinton, che ha governato praticamente sei anni con un congresso repubblicano, abbia ottenuto la rielezione e poi lasciato la Casa Bianca con un altissimo indice di popolarità. Questo perché le regole del Congresso consegnano alle minoranze parlamentari diversi strumenti per bloccare o rallentare l’iter delle leggi. Uno scenario in cui presidente e Congresso pendono dalla stessa parte permette all’opposizione di fare muro contro qualsiasi proposta, di rifiutare tutto quello che le passa davanti e presentarsi alle elezioni senza dover rendere conto di alcuna decisione. Uno scenario più fluido – presidente di un partito, congresso di un altro – costringe le parti a incontrarsi: nessuna legge, di fatto, può essere approvata senza il consenso sia dei repubblicani che dei democratici. Questo innervosisce le ali più estreme ma limita le posizioni strumentali dell’una o dell’altra parte, e nel corso delle trattative avvantaggia le figure più carismatiche, in grado di catalizzare attenzione e consensi. Come Obama.
foto: JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images