Perché Sky non è sul digitale terrestre
Perché il ministro Romani fa di tutto per non farcela andare, per la solita dannata ragione
di Piercamillo Falasca
Può Sky acquistare frequenze del digitale terrestre?
“Sì”, secondo l’Unione Europea e l’Autorità garante per le comunicazioni, purché i canali offerti ai telespettatori dalla società di Rupert Murdoch non siano a pagamento.
“Forse”, secondo il governo italiano, che sulla scorta di questo “dubbio” tiene sospesa da mesi la gara per l’assegnazione delle nuove frequenze. A danno del grado di concorrenza e pluralismo dell’offerta televisiva italiana e a vantaggio esclusivo degli attuali operatori del digitale terrestre, su tutti Mediaset e Rai.
La vicenda inizia nei primi mesi del 2010, quando trapela la notizia secondo cui la Commissione Europea stia per autorizzare Sky Italia a partecipare alla gara per le frequenze, sollevando l’azienda da un impegno sottoscritto nel 2003 e che le impediva fino al 31 dicembre 2011 di entrare nel settore del digitale terrestre.
Fiutata l’aria, l’allora viceministro allo Sviluppo Economico Paolo Romani, intento a redigere la gara per le frequenze, inizia a far circolare una certa tesi: l’Italia può affidare frequenze tv ad un’impresa straniera solo se un’impresa italiana nel paese di provenienza di tale operatore può fare altrettanto. Un principio di reciprocità, insomma, che il viceministro fa derivare addirittura da una vetusta disposizione preliminare del Codice Civile.
A giugno, Romani chiede conto della normativa americana al Ministero degli Esteri. E questo scova ciò che evidentemente il viceministro andava cercando: il Communications Act del 1934, che vieta ad una società straniera di possedere una licenza radiotelevisiva negli Stati Uniti. Non aggiunge, la Farnesina, che il divieto USA è valido solo per le società straniere, non per le società stabilite negli USA ma detenute da stranieri: come sa giustappunto Mediaset, impegnata a lanciare negli USA la sua piattaforma in lingua italiana. Reciprocamente, allora, la News Corp di Murdoch può operare in Italia con la società di diritto italiano Sky Italia. Ma di quest’evidenza, nel carteggio interministeriale, non c’è traccia.
Nel mese di luglio del 2010, arriva l’attesa decisione della Commissione Europea, favorevole a Sky Italia: Bruxelles riconosce come dal 2003 ad oggi il settore televisivo sia radicalmente mutato, tanto da considerare esauriti i possibili rischi per la concorrenza derivanti presenza del gigante satellitare anche sulla piattaforma digitale.
Del bando, intanto, si perdono le tracce. Passano i mesi, il commissario europeo Joaquim Almunìa sollecita più volte il governo italiano a procedere, ma Romani (nel frattempo promosso a ministro) fa orecchie da mercante. Anzi, rilancia la questione “reciprocità”: il 7 dicembre il Ministero dello Sviluppo economico presenta al Consiglio di Stato un quesito chiarificatorio, che possa “sgombrare ogni possibile equivoco – si legge in una nota ufficiale del 9 dicembre – su come debba essere inteso il principio della reciprocità tra Stati (…) con particolare riferimento, ovviamente, a quelli Extra Ue’”.
Il 20 dicembre arriva, laconica, la risposta del Consiglio di Stato: il quesito del Ministero è formulato in termini troppo “generali e sintetici” ed è “privo di un’argomentata illustrazione dei punti problematici“. In soldoni, il giudice amministrativo dice all’esecutivo: se vuoi chiedermi un parere, fammi una domanda specifica su un punto problematico, essendo la questione della reciprocità un non-problema. Sapendo dove il Governo vuol andare a parare, il Consiglio di Stato chiama comunque in causa l’Agcom, cui chiede sul tema un’osservazione tecnica. E il giudizio dell’autorità indipendente è netto: ciò che conta, per valutare l’accesso di un soggetto extra-europeo al settore delle frequenze digitali, è lo stabilimento della società in Italia o nello spazio economico europeo, non la nazionalità dell’azionista di maggioranza. Insomma, per l’Agcom non ci sono problemi all’acquisto delle frequenze del digitale terrestre da parte di Sky.
Ma Romani tesse e sfila la tela: da un lato riconosce “in una visione europea” la compatibilità della partecipazione di Sky Italia alla gara, dall’altro continua a parlare di “alcuni particolari rispetto alla disciplina di gara che vanno precisati”. Riformula la richiesta di parere al Consiglio dei Stato e prende tempo. A chi gli chiede conto della posizione del governo – come ha fatto la scorsa settimana Benedetto Della Vedova con un’interrogazione parlamentare – risponde da Azzeccagarbugli, evoca un po’ protezionisticamente la necessità di tutelare gli investimenti delle piccole tv locali dalla concorrenza straniera e rimanda alle calende greche la gara per le nuove frequenze (ora si parla di marzo, ma chissà…).
Raccontati i fatti, proviamo brevemente ad analizzarli. Accade spesso che un governo provi a limitare la concorrenza straniera subita dalle aziende nazionali. È una consueta “miopia” economica, che frena l’innovazione, danneggia gli interessi dei consumatori e tiene lontani dal paese capitali freschi. Ma nel caso di Sky e delle frequenze del digitale terrestre, si tratta di un approccio non solo miope, ma altamente “inopportuno”. Se Mediaset fosse solo un operatore televisivo italiano, messo al riparo della concorrenza da parte di un governo partigiano, ci sarebbe da restare contrariati di fronte ad un atteggiamento così sciovinista. Purtroppo si tratta di un gioiello di famiglia del presidente del Consiglio: il protetto e il protettore si sovrappongono, c’è il fiato di Mediaset sul collo del governo, ogni giorno di ritardo nel bando di gara per le nuove frequenze digitali consente al Biscione di godere di una vera rendita di posizione.
foto: AP Photo/Luca Bruno