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  • Martedì 25 gennaio 2011

I rischi di ridurre i parlamentari

Negli Stati Uniti c'è chi sostiene che debbano essere di più, non di meno

© Mauro Scrobogna / LaPresse
30-09-2009 Roma
Politica
Camera - scudo fiscale - voto fiducia
Nella foto: Panoramica Aula durante il voto
House of Assembly - vote of confidence on rules on fiscal drag and to fight ecomonical crisis
© Mauro Scrobogna / LaPresse 30-09-2009 Roma Politica Camera - scudo fiscale - voto fiducia Nella foto: Panoramica Aula durante il voto House of Assembly - vote of confidence on rules on fiscal drag and to fight ecomonical crisis

Quando si parla del numero dei parlamentari, in Italia, si registra una praticamente totale convergenza attorno a una singola posizione: sono troppi. C’è un tale accordo su questa tesi che si litiga sul passo successivo: se siamo tutti d’accordo, perché non si fa nulla?

Chi chiede la riduzione del numero dei parlamentari, in Italia, lo fa principalmente per due ragioni: la prima è la riduzione – simbolica, ma i simboli contano – delle risorse impiegate dallo Stato per mantenere la classe politica; la seconda è l’assenza di una ragione per avere un numero così alto di parlamentari – in Italia sono 945, più i senatori a vita – a fronte della mancata correlazione tra i parlamentari e un determinato e circoscritto collegio elettorale (con l’attuale legge elettorale, i parlamentari sono eletti con liste bloccate su base regionale).

Anche negli Stati Uniti circola da anni un gran clima di insofferenza e fastidio nei confronti dei politici, ma questa si deve più alla loro inefficienza e improduttività che ai loro privilegi. È raro che qualcuno metta in discussione il loro numero, e capita anzi che lo si faccia per proporne l’aumento, come hanno fatto ieri nella sezione degli editoriali del New York Times due docenti universitari, Dalton Conley e Jacqueline Stevens.

I due docenti non parlano del Congresso in generale ma solo della Camera, dove oggi i deputati sono 435 (i senatori sono cento, due per Stato, indipendentemente dalle loro dimensioni). Al contrario di quel che accade dal 2006 in Italia, negli Stati Uniti ogni deputato è espressione di un singolo collegio e quindi fa riferimento a un numero piuttosto ristretto di elettori. Ogni dieci anni i collegi vengono revisionati e se è il caso modificati, sulla base delle statistiche demografiche. Conley e Stevens sul New York Times sostengono che se all’aumento della popolazione non corrisponde un aumento del numero dei deputati, inevitabilmente questi finiranno per essere più distanti dagli elettori, dovendo confrontarsi con molte più persone. Il numero dei seggi al Senato è stabilito dalla Costituzione americana e non ha a che fare con la popolazione; quello della Camera no e quindi può essere modificato.

Nel 1787 la Camera aveva 65 membri, uno per ogni 60 mila abitanti (compresi gli schiavi, che valevano tre quinti di una persona). Per oltre un secolo, a ogni censimento è seguita una legge che incrementava le dimensioni della Camera. Dopo il censimento del 1910, però, la crescita si è fermata.

Il censimento del 1920 ha mostrato che la maggioranza degli americani si stava concentrando nelle città, e i “nativi”, preoccupati dall’influenza degli “stranieri”, hanno fatto interrompere gli sforzi per dar loro più rappresentanti. Dieci anni dopo i deputati furono di nuovo estremamente riluttanti ad aumentare il numero dei deputati – e quindi diluire l’importanza dei loro voti – e il tema da lì in poi non fu più seriamente sollevato.

Di fatto, scrivono Conley e Stevens, è che gli americani non sono mai stati così mal rappresentati. Se oggi i deputati dovessero corrispondere ai cittadini nella stessa scala del 1913, i deputati dovrebbero essere molti più di mille: ognuno di loro rappresenta qualcosa come 700 mila elettori. Questo genere di squilibrio, facendo diminuire la rappresentanza dei cittadini, aumenta il potere dei lobbisti: meno sono i politici, più è facile per loro influenzarli. Per questo secondo Conley e Stevens bisogna aumentare le dimensioni della Camera riducendo le dimensioni dei suoi collegi: le campagne elettorali costerebbero di meno, le donazioni dei singoli elettori avrebbero più valore, l’importanza delle comunità locali ne sarebbe accresciuta. E forse si smonterebbe anche il bipartitismo: il collegio di Orange County, in California, potrebbe eleggere un deputato del partito libertario mentre a Cambridge, in Massachussetts, potrebbe vincere un candidato dei Verdi. Ancora: più deputati vorrebbe dire più persone comuni alla Camera e meno deputati di professione. In città grandi come New York o Chicago, ogni quartiere potrebbe avere il suo deputato. Se ogni deputato deve rappresentare meno elettori potrà fare più lavoro da sé e non dovrà affidarsi a staff molto grandi.

Conley e Stevens sono a conoscenza delle controindicazioni – dibattiti dilatati in aula, tempi più lunghi per l’approvazione delle leggi – ma sperano che la tecnologia e internet possano rendere la burocrazia meno pesante e farraginosa. E sono anche a conoscenza del fatto che difficilmente i deputati approveranno una legge che di fatto riduce il loro potere.

Per questa ragione, se mai questa riforma si farà, sarà perché la richiesta verrà dal basso. Fortunatamente viviamo in un momento particolarmente appropriato: l’unica cosa su cui MoveOn e i tea party sono essere d’accordo è che bisogna cambiare lo status quo a Washington. Fino a questo momento, cambiare lo status quo è stato un sinonimo di ridurre le dimensioni del governo. Forse invece è il caso di ingrandirlo, il governo – o almeno di farlo con la Camera dei deputati.

foto: Mauro Scrobogna / LaPresse