Twitter e la rivolta in Tunisia
Il regime è finito grazie ai social network o sarebbe successo comunque?
Evgeny Morozov è uno scrittore e giornalista bielorusso esperto di cose di internet, collabora con diverse testate come l’Economist e Newsweek, scrive su Slate e ha un blog su Foreign Policy e da poco ha pubblicato The Net Delusion, un libro in cui analizza e demolisce le teorie più recenti sulla comunicazione che vedono nei social network come Facebook e Twitter una nuova importante risorsa per i popoli oppressi per far sentire la loro voce. Nella complessa e articolata discussione sui benefici e e limiti della rete, i suoi pensierivengono spesso semplificati e tirati per la giacchetta dai critici delle nuove tecnologie. Secondo Morozov i fans delle libertà offerte dalla rete esagerano spesso, rappresentando in maniera ingigantita dinamiche che solo marginalmente hanno contribuito a deporre dittature o a far emergere movimenti rivoluzionari.
In The Net Delusion l’autore ricorda come gli stessi strumenti siano utilizzati anche dai regimi per controllare i dissidenti. Gli infiltrati creano profili e account fasulli per avvicinare gli attivisti, identificarli e controllare le loro iniziative. Quindi, conclude Morozov, alla fine è sempre la politica a determinare la caduta o meno di un dittatore. Il dibattito ha conosciuto una grande intensificazione nei giorni scorsi, dopo che molte semplificazioni giornalistiche si sono precipitate a disegnare la rivolta tunisina come l’ennesima “rivoluzione di Twitter”, confondendo secondo Mozorov l’utilità di alcuni strumenti con un loro sopravvalutato ruolo di fattori veri e propri di cambiamento (un fronte laterale del dibattito è stato dedicato invece alla sopravvalutazione della responsabilità dei documenti di Wikileaks sulla Tunisia nell’incentivare la rivolta). Il confronto è avvenuto soprattutto col grande teorico del potere delle reti sociali, Clay Shirky, ma altri commentatori hanno aggiunto il loro scetticismo sulle “rivoluzioni di Twitter”.
Mercoledì, quando i dibattenti avevano trovato diverse intese una volta accordatisi sulle esagerazioni giornalistiche, Timothy Garton Ash sul Guardian ha condiviso almeno in parte le opinioni dell’attivista bielorusso, ma rifacendosi agli ultimi eventi della Tunisia ha cercato di smontare alcuni passaggi del libro.
La sfida che pone è salutare, ma – come buona parte dei revisionisti – Morozov esagera nella direzione opposta. La Tunisia offre puntualmente una revisione per le sue revisioni. A quanto sembra, Internet ha avuto un ruolo importante nel diffondere le notizie sul suicidio che ha acceso le proteste e poi nel moltiplicare quelle proteste. Si stima che il 18% della popolazione tunisina utilizzi Facebook e il regime non è riuscito a bloccarlo in tempo.
L’inchiesta di Noureddine Miladi pubblicata alcuni giorni fa da Al-Jazeera conferma questi dati e suggerisce un circolo virtuoso tra media tradizionali e nuovi mezzi di comunicazione. Centinaia di migliaia di tunisini hanno usato i loro telefoni cellulari per filmare e fotografare gli scontri, diffondendoli poi online sui loro profili di Facebook, su YouTube o con aggiornamenti in tempo reale su Twitter. Questa mole di informazioni è stata poi utilizzata dalle principali emittenti all-news del mondo, visibili in Tunisia sulla televisione satellitare, incentivando la produzione di nuovo materiale da parte di chi partecipava alle manifestazioni.
Chi ha utilizzato il Web per promuovere la rivolta è stato anche avvantaggiato dalla relativa lentezza con cui il regime ha cercato di rispondere per ostacolare l’utilizzo della Rete. Mentre in piazza si manifestava, le autorità hanno provato a entrare in possesso delle credenziali di accesso ai servizi di posta elettronica e ai social network di diversi attivisti. Il blogger Slim Amamou, molto critico nei confronti del regime, è stato rintracciato e arrestato nei giorni della protesta, per essere poi liberato una volta caduto il regime.
Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione dei giorni nostri hanno contribuito al successo della protesta. Non l’hanno causata, ma l’hanno aiutata. Secondo gli esperti, con il suo basso numero di abitanti, una popolazione relativamente omogenea, moderata e pacifica, sostanzialmente senza islamisti, la Tunisia potrebbe diventare il faro del cambiamento nel Maghreb. Se le cose andranno bene, internet e la TV satellitare diffonderanno quelle notizie attraverso il mondo Arabo.
Anche Wikileaks può aver contribuito alla destituzione di Ben Ali, ricorda Ash sul Guardian. L’organizzazione diventata celebre per la diffusione di documenti riservati statunitensi aveva pubblicato nelle settimane precedenti alla rivolta diversi dispacci diplomatici contenenti informazioni sul regime. I cables descrivevano le abitudini di Ben Ali e le spese folli del regime per il lusso che contrastavano con gli stili di vita della maggior parte della popolazione tunisina. I documenti rivelavano anche i numerosi casi di corruzione che interessavano le più alte cariche del paese.
Naturalmente i tunisini erano già a conoscenza di queste cose, ma la diffusione dei documenti di Wikileaks ha contribuito a far crescere una maggiore consapevolezza, specialmente di come gli Stati Uniti vedessero la Tunisia e i suoi problemi legati alla democrazia. Il sito web tunileaks.org ha raccolto i dispacci, creando uno spazio di confronto e discussione sul regime. Anche in questo caso, il Web è stato comunque uno strumento a sostegno di un fenomeno ben più ampio, nato al di qua dello schermo. Vale, per trovare un equilibrio di valutazione, la domanda di Mozorov: questa rivoluzione sarebbe avvenuta, senza Facebook e Twitter?