Il cambiamento che non c’è
Una bella e addolorata analisi di Ezio Mauro sul caso Fiat e su come dovremmo giudicarlo
Il caso Fiat è diventato argomento di riflessioni, opinioni e dibattiti rapidamente nei giorni scorsi, forse prima che le persone avessero gli strumenti e le informazioni per giudicare saggiamente. È successo così che molti siano rimasti spaesati e in cerca di chiarezza – in rete si registrano tantissime richieste di lettura del testo integrale dell’accordo, o di sue sintesi affidabili – e che molti altri abbiano invece preso posizioni senza avere tutti i pezzi della questione. Repubblica ospita oggi un lungo editoriale del direttore Ezio Mauro che affronta la questione da lontano, senza entrare nei dettagli dell’accordo ma definendo il contesto in un modo che rende le opinioni certe meno certe, e spiega che la questione Fiat è sintomo di cose più grandi, a cominciare dalla mancanza di leadership e autorevolezza delle classi dirigenti italiane, politiche e non.
Due, tre cose sulla Fiat e il Paese prima che si conoscano i risultati del referendum di Mirafiori. Prima, per ragionare fuori dall’orgia ideologica di chi si schiera sempre con il vincitore e di chi pensa che i canoni della modernità e del progresso – oggi – sono sanciti dal rapporto di forza.
Il voto e la sfida di Torino non disegneranno un nuovo modello di governance per l’Italia, come sperano coloro che oggi attendono da Marchionne quel che per un quindicennio ha promesso Berlusconi, senza mai mantenere. Soprattutto non daranno il via né simbolicamente né concretamente – purtroppo – ad una fase generale di crescita del Paese. Il significato della partita di Mirafiori è un altro, e va chiamato col suo nome: la ridefinizione, dopo tanti anni, del rapporto tra capitale e lavoro.
Un manager che è lui stesso transnazionale, che ha spostato il baricentro della Fiat da Torino a Detroit, ha liberato la famiglia proprietaria dal vincolo centenario con l’automobile ma anche dalla responsabilità verso il Paese, ha deciso un assemblaggio multinazionale dei prodotti che cambierà per sempre la fisionomia e la natura dell’automobile italiana, cambia a questo punto anche le regole del gioco.
Se devo vendere nel mercato globale – dice Marchionne all’operaio – devo produrre al costo e alle condizioni di quel mercato, e se in Italia le condizioni e i costi sono diversi devono adeguarsi: solo così io investirò a Mirafiori, altrimenti andrò in Canada.
Dammi dunque il tuo lavoro secondo le mie necessità, in cambio ti darò più salario e il posto. Non c’è altro perché il posto, in tempi di crisi e di esclusione sociale, diventa la suprema garanzia e ne assorbe ogni altra. Anzi, perché l’investimento sia redditizio, ho bisogno di un controllo totale della produzione, via dunque i diritti (lo sciopero, la rappresentanza) perché sono una variabile indipendente, che rompe il modello di controllo: questo è il nuovo diritto-dovere in cui si esercita la libertà d’impresa. Le ragioni di Marchionne sono quelle della globalizzazione. Ma ci sono anche le ragioni degli altri, che sono le ragioni di tutti, perché chiamano in causa addirittura la democrazia.
Noi vediamo che in questo schema il rapporto tra capitale e lavoro si semplifica perché perde ogni cornice, si rinchiude nella fabbrica, smarrisce ogni valenza nazionale, dunque simbolica, quindi politica. Separato dai diritti, il lavoro torna ad essere semplice prestazione, merce. Ma insieme con i diritti, il lavoro diventava un elemento di dignità e di emancipazione (concetti più ampi del solo, indispensabile salario), dunque di cittadinanza, dando un senso alla Costituzione che lo pone a fondamento della Repubblica proprio per queste ragioni, intendendo in sostanza che senza libertà materiale – nel senso più largo ma anche più concreto del termine – non c’è libertà politica.
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