I piani del nuovo Congresso degli Stati Uniti
Domani si insediano la Camera e il Senato votati alle ultime elezioni di metà mandato
di Francesco Costa
Domani negli Stati Uniti si insedia il 112° Congresso, eletto alle elezioni dello scorso novembre. Un po’ di nozioni, intanto, ché tornano utili: per Congresso si intendono Camera e Senato insieme, come il Parlamento in Italia. La Camera è composta da 435 deputati, eletti su collegi stabiliti in modo proporzionale alla popolazione. Tutti i seggi della Camera si rinnovano ogni due anni. L’altro ramo del Congresso, il Senato, è composto invece da cento membri: due per ogni stato, indipendentemente dalla sua popolazione e dalle sue dimensioni. I membri del Senato restano in carica sei anni: ogni due anni se ne rinnova un terzo.
La Camera che si insedia domani è una Camera a maggioranza repubblicana, per la prima volta dal 2004. I repubblicani possono contare su 242 seggi, i democratici su 193. Questo ha una conseguenza, fondamentale: portare sulla poltrona della presidenza della Camera, terza carica degli Stati Uniti, il leader dei repubblicani John Boehner. In Senato, invece, i democratici hanno conservato la maggioranza: il loro margine di vantaggio però si è ristretto ed è passato da 59 a 53. Altra conseguenza fondamentale, quindi: nella precedente legislatura la Camera era schierata decisamente più a sinistra del Senato, nell’attuale legislatura è vero il contrario.
Il sistema legislativo degli Stati Uniti prevede che una legge, per essere approvata, debba essere approvata sia dalla Camera che dal Senato, per poi essere sottoposta al Presidente. Questo può firmarla, promulgandola definitivamente, oppure mettere il veto e rispedire il testo al Congresso. Il Congresso può sorpassare il veto del presidente se approva nuovamente la legge con una maggioranza dei due terzi sia alla Camera che al Senato. Tutto questo per dire che nei prossimi due anni, che sono i due anni che porteranno alle elezioni presidenziali, l’iniziativa legislativa degli Stati Uniti richiederà obbligatoriamente la collaborazione di democratici e repubblicani: nessuna delle due parti, infatti, gode della forza necessaria ad approvare una legge senza il sostegno dell’altra parte, come invece hanno fatto più volte i democratici in questi due anni.
I repubblicani hanno riconquistato la maggioranza alla Camera trainati dall’ala più combattiva e radicale del partito, sulla base della promessa di annullare quanto accaduto negli ultimi due anni: abolire la riforma sanitaria, innanzitutto, poi continuare con la riforma finanziaria. Si tratta promesse che non possono essere mantenute, visto che i democratici hanno ancora la maggioranza al Senato e soprattutto l’inquilino della Casa Bianca. Dal punto di vista simbolico, però, qualcosa può essere ottenuto. È già stato calendarizzato, per esempio, un voto alla Camera sull’abolizione della riforma sanitaria approvata lo scorso anno: con ogni probabilità la mozione sarà approvata e si fermerà lì. La stessa cosa potrebbe avvenire riguardo la riforma finanziaria.
Ci sono altri temi però riguardo i quali la maggioranza repubblicana alla Camera è destinata a influenzare pesantemente l’attività legislativa degli Stati Uniti. Uno di questi è la riduzione del debito pubblico, altro cavallo di battaglia della destra liberista americana. In campagna elettorale i repubblicani hanno promesso di ridurre il deficit di cento miliardi di dollari entro la fine dell’anno. È una cifra notevole, e la promessa non prevedeva dettagli sui capitoli di spesa da tagliare ma solo su quelli da salvaguardare: l’esercito, la sicurezza interna, i veterani. Per realizzare questo obiettivo bisognerebbe tagliare in un colpo solo praticamente il 20 per cento della spesa pubblica degli Stati Uniti, con conseguenze potenzialmente disastrose per la ripresa dei consumi. D’altra parte, la promessa è stata sottoscritta solo dai repubblicani della Camera: quelli del Senato sono apparsi ben più guardinghi e quindi difficilmente il taglio prenderà corpo nei prossimi mesi.
Tutte queste battaglie perse, però, non hanno solo valore simbolico. Durante l’elaborazione della legge finanziaria e i negoziati con i democratici e la Casa Bianca, infatti, i repubblicani potranno usare queste leve per aumentare il loro potere contrattuale. E non è detto che a un certo punto le posizioni attualmente in campo si possano invertire: da una parte, infatti, il presidente Obama sembra intenzionato a presentare presto un suo piano per la riduzione del deficit. Dall’altra alcuni repubblicani potrebbero maldigerire dei tagli così profondi e indiscriminati: specialmente alla Camera, dove tutti i deputati saranno chiamati a giocarsi la rielezione tra appena due anni. Per questa ragione, e per le peculiarità del sistema istituzionale americano, domani si apre una fase più fluida e aperta di quella conclusa con le elezioni di metà mandato: né i democratici né i repubblicani potranno limitarsi a dire di no alle proposte dell’altro, né i democratici né i repubblicani potranno dire peste e corna di qualsiasi cosa il Congresso abbia votato e il presidente abbia firmato nei prossimi due anni. Salvo sorprese, quindi, gli Stati Uniti sono attesi da una campagna elettorale – quella per le presidenziali del 2012 – dai toni più equilibrati di quella delle ultime elezioni di metà mandato.
foto Mark Wilson/Getty Images