La storia delle cimici nell’ufficio di Bossi

Sforziamoci di prendere sul serio l'episodio denunciato dal leader della Lega: questo è quello che si sa

©MAURO SCROBOGNA/LAPRESSE
05-12-2002 ROMA
POLITICA
SENATO - DISCUSSIONE SULLA DEVOLUTION
NELLA FOTO IL MINISTRO PER LE RIFORME UMBERTO BOSSI EDIL SOTTOSEGRETARIO ALDO BRANCHER
©MAURO SCROBOGNA/LAPRESSE 05-12-2002 ROMA POLITICA SENATO - DISCUSSIONE SULLA DEVOLUTION NELLA FOTO IL MINISTRO PER LE RIFORME UMBERTO BOSSI EDIL SOTTOSEGRETARIO ALDO BRANCHER

Sono le tre del mattino della notte tra il 2 e il 3 gennaio. Umberto Bossi è all’hotel Mirella, a Ponte di Legno, e sta ancora chiacchierando coi giornalisti. Fuma un sigaro, beve una Coca Cola, poi dice: «E poi un mese fa, o forse no era ottobre, hanno trovato le cimici nel mio ufficio al ministero e nella mia casa di Roma…». Bùm. «Ho preferito non dirlo prima perché non mi piace far casino. Non ho nemmeno presentato denuncia perché tanto le inchieste non portano da nessuna parte…». Il racconto prosegue. Bossi spiega che è stata la sua segretaria ad accorgersi di qualcosa di strano. «Si era accorta che certe cose che ci eravamo detti io e lei le sapevano anche altri. Ha avuto un sospetto, abbiamo chiamato una ditta privata per fare la bonifica. In ufficio hanno trovato una microspia, a casa mia ce n’erano in quantità».

Cosa succede
La dichiarazione è importante, se uno si sforza di prenderla sul serio: c’è un ministro della Repubblica e leader di un importante partito che denuncia pubblicamente il ritrovamento di alcune microspie nei propri uffici. Si tratta di un’accusa gravissima. Fatte le dovute proporzioni, lo spionaggio dei propri avversari politici è stato l’atto che ha portato alle prime e uniche dimissioni di un presidente americano nella storia degli Stati Uniti. Comprensibilmente, quindi, la procura di Roma ha aperto immediatamente un’inchiesta. Le ipotesi di reato sono due. Una, relativa all’articolo 617 del codice penale, di “cognizione, interruzione o impedimento illecito di comunicazioni o conversazioni telefoniche”. L’altra, relativa all’articolo 617 bis, di “installazione di apparecchiature atte a intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni telefoniche”. La prima anomalia, quindi, è che nonostante una minaccia così grave alla sua persona e alla sua attività politica Bossi non abbia denunciato l’accaduto, né alle forze dell’ordine né all’opinione pubblica.

Il ruolo del ministero degli interni
C’è un altro tratto singolare del comportamento di Bossi. Il leader della Lega Nord sostiene di avere informato dell’accaduto Roberto Maroni, ministro degli interni e suo compagno di partito, e che questo avrebbe «mandato un po’ di suoi uomini». Tutto è molto strano: non solo Bossi non denuncia nulla, ma chiama il ministro degli interni e questo in tutta autonomia e in assenza di una denuncia “manda un po’ dei suoi uomini”. Non ci si capisce molto. Per orientarsi meglio, infatti, bisogna cambiare piano: passare dal racconto di Bossi a quello delle altre persone coinvolte in questa storia.

Le ispezioni
Stando a quel che sappiamo, ci sono state due ispezioni nella casa e nell’ufficio di Bossi: una di una “società privata” e una degli uomini mandati da Maroni. Non è chiaro quale delle due ispezioni sia avvenuta prima dell’altra, anche se dalle parole di Bossi sembra che sia stata effettuata prima la bonifica della società privata. Ma perché il ministro degli interni avrebbe dovuto mandare dei suoi uomini – sempre in assenza di qualsiasi denuncia – quando casa e ufficio di Bossi erano già stati bonificati?

Cosa dicono gli altri
I giornali di oggi, soprattutto la Stampa e il Corriere della Sera, rendono conto di quanto hanno scoperto interpellando sull’argomento le altre persone coinvolte nella storia. Secondo “una fonte autorevole”, scrive Guido Ruotolo sulla Stampa, “gli uomini della Scientifica mandati dal ministro dell’Interno non avrebbero trovato il corpo del reato, la cimice”. La stessa cosa si legge nell’articolo di Flavio Haver sul Corriere della Sera, con una nota in più.

Di «cimici» ritrovate nell’ufficio al ministero per le Riforme o nell’abitazione romana di Umberto Bossi, almeno nei documenti ufficiali, non c’è traccia. Né tantomeno, almeno a quanto risulta al Viminale e ai responsabili dei nostri servizi segreti, microspie sono state rinvenute durante la bonifica che, almeno inizialmente, è stata eseguita da una ditta privata e, poi, ripetuta da agenti di pubblica sicurezza.

Insomma, la versione di Bossi è smentita al cento per cento. Le cimici non le avrebbe viste nessuno: né il ministero degli interni né la ditta privata. D’altra parte, anche in assenza di una denuncia da parte di Bossi, se gli agenti avessero rinvenuto delle microspie, avrebbero avuto l’obbligo di redigere un rapporto. Che non c’è, come non ci sono le cimici. Ruotolo, sulla Stampa, sostiene che negli uffici del ministero delle riforme “nessuno si è accorto” della bonifica.

I precedenti, 1993 e 1996
Così come gli strali contro Roma e i poteri-forti fanno parte da sempre del lessico leghista, Bossi non è nuovo alle denunce di presunti tentativi di spionaggio ai suoi danni. Nel dicembre del 1993 il leader della Lega denunciò il ritrovamento di otto o nove cimici nella sua casa di Roma. Anche quella volta fu aperta un’inchiesta, anche quella volta non arrivò a nulla e Bossi, dopo qualche giorno, la buttò in caciara: prima scherzò sugli ignari “mariti cornuti”, poi accusò i servizi segreti e Nicola Mancino, allora ministro degli interni: «Chissà la rabbia di Mancino a sentire me e mia moglie all’opera…». Un altro aneddoto, per gli appassionati: nel 1996 Silvio Berlusconi si presentò adirato in una conferenza stampa brandendo una grossa microspia e denunciando di averla trovata dietro un termosifone di casa sua. La cimice era stata trovata da Paolo Izzi, ospite dell’allora leader di Forza Italia, titolare e direttore tecnico di una società esperta in telefonia, chiamato per fare una bonifica. La procura di Roma aprì un’inchiesta. Così scriveva Repubblica qualche mese dopo, il 16 luglio 1997.

Nessuno spionaggio politico. Niente attentato alla democrazia o violazione della privacy. E’ stata una truffa. Dopo nove mesi di indagini è stato chiarito il mistero della microspia trovata a ottobre dell’ anno scorso nello studio romano di Silvio Berlusconi. I magistrati pensano che l’ abbia messa la stessa persona che l’ aveva ritrovata: Paolo Izzi, titolare e direttore tecnico della “Sirti service”, una società esperta in telefonia, che bonificò gli uffici del leader di Forza Italia in via del Plebiscito. Era il suo primo incarico di quel tipo. Il procuratore aggiunto Vittorio De Cesare e il sostituto Pietro Saviotti hanno sollecitato l’ ufficio del gip ad archiviare il caso per quanto riguarda l’ ipotesi di spionaggio politico, interferenza illecita nella vita privata e violazione di domicilio.

Roberto Maroni, all’epoca, avanzò il sospetto ancor prima dei magistrati: «Più che una cimice a me pare una mozzarella, anzi una bufala».

foto MAURO SCROBOGNA/LAPRESSE