“Ecco perché del Riformista c’è bisogno”
Il combattivo primo editoriale del neodirettore Stefano Cappellini
Con la fine dell’anno, Antonio Polito ha lasciato la direzione del Riformista, il quotidiano che aveva contribuito a fondare nel 2002. Polito ha salutato i lettori con un editoriale spiegando che la sua decisione si deve alla complicata situazione finanziaria del quotidiano – messo in difficoltà dalla crisi delle vendite e dai tagli del governo all’editoria – e che le sue dimissioni avrebbero facilitato il passaggio di proprietà. Da settimane, infatti, si discute dell’interesse di Emanuele Macaluso e di altri esponenti della sinistra storica all’acquisizione del giornale. Nell’attesa di definire la situazione, la direzione è assunta da Stefano Cappellini, già vicedirettore del quotidiano. Questo è il suo editoriale di oggi.
Siamo vivi. Siamo giovani. E abbiamo idee, talento e voglia per fare un Riformista all’altezza della sua tradizione. Consentitemi di partire da questa rivendicazione collettiva, nel giorno in cui assumo la direzione del Riformista per il tempo che sarà necessario a traghettarlo verso la definizione di una nuova compagine editoriale. Ho letto troppi necrologi di questo giornale e sentito intonare de profundis, qualcuno da improbabili ugole, per non avere urgenza di ricordarlo. Voglio subito ringraziare il fondatore e direttore uscente Antonio Polito, senza il quale non saremmo qui a chiederci dove eravamo rimasti, e quanti si sono fatti vivi in questi giorni con noi per testimoniare affetto, partecipazione e condivisione: il nostro primo obiettivo è non deludere nessuno di loro. Non vi tedierò oltre con i nostri guai finanziari, dai quali pure dipende in parte il nostro destino. Possiamo avere difficoltà a campare. Ma non siamo fatti per tirare a campare.
Molto è cambiato da quando il Riformista è andato per la prima volta in edicola – era l’ottobre 2002 – e la gran parte di questi cambiamenti (involuzioni e regressioni, perlopiù) è stata fotografata da Polito nel suo editoriale di congedo. Non c’è nulla di interessante da aggiungere alla sua analisi sul perché Berlusconi sia diventato il principale ostacolo rispetto al tentativo di trascinare il paese fuori dall’attuale immobilismo: colui che si presentava come l’innovatore per eccellenza – non senza credenziali – è oggi il vero grande custode dello status quo. In sedici anni non ha riformato nulla di ciò che prometteva: il fisco, la pubblica amministrazione, le istituzioni, la giustizia. Nulla. A chi vuol spingersi a sostenere che la riforma Brunetta o la riforma Gelmini sono svolte epocali, consiglieremmo di sbilanciarsi sulla questione il primo aprile, anziché il primo gennaio.
Altro invece si può dire su chi, per mandato, avrebbe da tempo dovuto offrire un’alternativa allo stato di cose esistente. Perché gli sfasci del berlusconismo non possono eclissare quelli dell’opposizione. E, del resto, vanno di pari passo da lungo tempo. Perché, a differenza di Polito, non ho mai creduto alla funzione maieutica del Cavaliere sulla sinistra. Anzi, credo esattamente al contrario. Berlusconi non è un virus che poteva trasformarsi in vaccino. È un virus che ha scatenato un’epidemia. Gli è riuscito di plasmarsi giorno dopo giorno un avversario sempre più contagiato dai propri vizi, come testimoniano – solo per stare agli ultimi tempi – le fiammate di plebiscitarismo veltroniano, di cesarismo vendoliano, di populismo dipietrista. Non suoni come un’attenuante, o come un modo di scaricare sul presidente del Consiglio persino le colpe dei suoi avversari: è casomai il segno di una doppia sconfitta e di una doppia responsabilità di chi in questi anni avrebbe dovuto e potuto fronteggiarlo. Il ventennio berlusconiano ha sempre favorito il ristagno, quando non la proliferazione, dei peggiori tic della sinistra e ne ha accelerato una penosa mutazione antropologica, che il Riformista non ha mai smesso di contrastare e continuerà a contrastare in futuro.