Cosa non piace a Napolitano della riforma Gelmini
Il presidente ha firmato la legge ma ha chiesto quattro modifiche, una che colpisce la Lega
Al termine di un lunghissimo processo legislativo, il 23 dicembre scorso la riforma dell’università è stata approvata ed è quindi finita nelle mani di Giorgio Napolitano. Il presidente ha comunicato ieri con una lettera di avere deciso di firmarla, a patto che vengano modificati quattro punti. Napolitano ha fatto inoltre due richiami generali, chiedendo di aumentare le risorse a disposizione degli atenei e spingendo alla collaborazione di tutte le fasi interessante nella prossima e complessa fase attuativa della legge.
Tra le modifiche richieste — non sostanziali, come ha commentato il ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini — spicca l’eliminazione di un articolo voluto fortemente dalla Lega. La norma in questione (articolo 4) prevedeva di destinare il 10 per cento delle borse di studio ai residenti nella regione in cui si trova l’ateneo. Alberto D’Argenio su Repubblica scrive che a spingere per la stesura di questo articolo sono stati il governatore del Piemonte Roberto Cota e il suo compagno di partito Mario Borghezio, secondo i quali «i ragazzi del Sud ottengono le borse perché presentano dichiarazioni false». Il governo avrebbe quindi accontentato le richieste leghiste rendendo, continua D’Argenio, “più difficile la vita ai fuorisede già penalizzati — come tutti gli agli altri studenti — dal taglio dei fondi destinati alle borse (da 100 a 75 milioni)”.
La seconda modifica richiesta è più formale che altro e riguarda l’articolo 6, quello che riforma la condizione di professore aggregato. La Camera ha infatti approvato due articoli che si contraddicono l’uno con l’altro, abrogando e modificando allo stesso tempo una norma delle precedente riforma. Si tratta del punto che ha fatto nascere le accese discussioni in Senato, con il PD che accusava la maggioranza di voler approvare la legge senza rimettere mano al testo per correggerne i vizi formali.
La terza osservazione del presidente verte sull’articolo 23, che riguarda i contratti di insegnamento riservati agli esperti. La riforma chiede che per diventare professore a contratto si abbia un reddito esterno da quello universitario di almeno 40mila euro lordi, una proposta pensata dal PD per mettere fine alla pratica per cui i contratti gratuiti vengono usati «per precarizzare i ricercatori». Secondo Napolitano, però, la norma appare di “dubbia ragionevolezza”, perché introdurrebbe una limitazione oggettiva (il reddito) ai requisiti di carattere scientifico e professionale.
Il quarto punto riguarda l’articolo 26, quello sui lettori in madre lingua. Una figura da anni al centro di polemiche a cui la riforma, scrive D’Argenio, “dà un colpo di spugna” definendo i lettori come ricercatori, e non come professori, “dichiarando estinti tutti i contenziosi in corso”. Napolitano ha commentato come sia “opportuno” che l’articolo sia formulato “in termini non equivoci e corrispondenti al consolidato indirizzo giurisprudenziale della Corte Costituzionale”.