«Una dichiarazione di guerra»
I negoziati tra il Sudan e i ribelli del Darfur non stanno andando per niente bene
Il presidente del Sudan Omar al-Bashir ha dichiarato che, se entro oggi non verrà raggiunto un accordo con i ribelli del Darfur, ritirerà il proprio gruppo di negoziatori da Doha, la capitale del Qatar dove si stanno tenendo i negoziati. I due principali gruppi ribelli, l’Esercito per la Liberazione del Sudan (SLA) e il Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza (JEM), hanno condannato le parole del presidente, definendole «una dichiarazione di guerra».
Il Darfur è devastato dalla guerra civile dal 2003, quando diversi gruppi di ribelli si scontrarono con il governo in cerca di più autonomia, accusando il governo sudanese di opprimere i neri a favore degli arabi. Da allora, secondo le stime ufficiali, circa 400.000 persone sono state uccise e 2,7 milioni di persone hanno abbandonato le loro case e si sono rifugiate in Ciad, dando origine a una delle più gravi crisi umanitarie della storia dei paesi africani. Lo scorso luglio il presidente del Sudan, Omar Hassan al-Bashir, è stato incriminato dalla Corte Penale Internazionale con l’accusa di genocidio nel Darfur.
Il governo e i ribelli stanno discutendo da mesi nel tentativo, per ora fallimentare, di raggiungere un accordo. Al-Bashir ha annunciato il termine ultimo dei negoziati in diretta sulla televisione nazionale: «Se non raggiungeremo un accordo, ritirerò il nostro gruppo di negoziatori e terremo le discussioni in Darfur. Combatteremo chi sceglierà di prendere le armi, sosterremo chi cercherà uno sviluppo».
JEM, il gruppo ribelle meglio armato, ha definito le parole di al-Bashir «una dichiarazione di guerra. Mina gli sforzi della comunità internazionale e dei mediatori di risolvere questo conflitto attraverso strumenti politici. Vogliamo raggiungere un accordo giusto, che è quello che stiamo cercando di fare qui a Doha. Se il Sudan lascia Doha, non possiamo accordarci con noi stessi». Le trattative con JEM erano ricominciato lo scorso mese, quando era nell’aria un accordo con un altro gruppo, il Movimento per la Libertà e la Giustizia (LJM), un’alleanza di ribelli fuoriusciti da altre fazioni. L’accordo non è stato però mai firmato.
Solo dallo scorso dieci dicembre in poi le violenze nella regione occidentale del Sudan hanno portato allo sfollamento di circa 32mila persone, secondo le stime dell’ONU. Djibril Bassole, il direttore delle negoziati di pace per l’ONU in Darfur, ha detto che si impegnerà a tenere in vita le trattative, e tenere tutti al tavolo: «Sono tra quelli che vogliono una soluzione rapida e soddisfacente. Ma mediare con qualcuno che ha un cronometro in mano non è semplice».
La fretta di al-Bashir è dovuta anche all’appuntamento del 9 gennaio, quando si voterà un importante referendum per decidere della secessione tra nord e sud del paese. Le due aree sono in guerra da decenni, e si stima che dal 1983 al 2005 più di due milioni di persone siano morte e altre quattro milioni siano state costrette a lasciare le loro case. Se le elezioni si svolgeranno regolarmente, è praticamente certo che il sud voterà in blocco per l’indipendenza. Il presidente al-Bashir ha annunciato che, se ci sarà la secessione, il nord del Sudan adotterà una costituzione basata sulla legge islamica.