La giornata importante di Obama
Oggi il presidente statunitense può rilanciare la sua amministrazione, con tre importanti voti al Senato
di Francesco Costa
Aggiornamento. Il Senato ha abolito il “don’t ask don’t tell”: la legge a questo punto deve soltanto essere firmata dal presidente Obama. Il voto sulla legge DREAM invece non è andato bene: i favorevoli sono stati 55, i contrari 41, ma per superare l’ostruzionismo dei repubblicani servivano almeno sessanta voti.
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Mai dare Obama per morto. Se c’è una cosa che gli osservatori della politica statunitense hanno imparato negli ultimi quattro anni, è certamente questa: che l’attuale presidente statunitense è bravissimo a tirarsi fuori dalle situazioni più complicate, a trasformare in risorse le cose che lo danneggiano. È una qualità e una strategia precisa, già messa alla prova più volte. When in trouble, go big: quando sei nei casini, fa’ qualcosa di grande.
Gli era riuscito bene durante la campagna elettorale per le presidenziali, quando trasformò le critiche per i suoi rapporti col reverendo Wright nel discorso A more perfect union – quello impropriamente definito “discorso sulla razza” – che lo proiettò nella Storia ancora prima di fargli mettere piede alla Casa Bianca. Gli era riuscito durante il tortuoso iter di approvazione della riforma sanitaria, durante il quale era stato dato per morto più di una volta e dal quale tutte le volte era riuscito a guadagnarsi spazio e attenzione fino a riuscire a portare la riforma alla storica approvazione del congresso. Certo, non gli è andata sempre così bene: il discorso dallo Studio Ovale durante l’emergenza petrolifera nel golfo del Messico non aiutò a chiudere la falla prima del tempo, mentre l’attivismo di Obama nell’ultima campagna elettorale è servito solo a limitare i danni davanti alla grande vittoria dei repubblicani. La sostanza rimane, però: mai darlo per morto prima del tempo.
L’ennesima conferma di questa tesi è arrivata la settimana scorsa, quando Obama ha trasformato una sicura e umiliante sconfitta in una indiscutibile vittoria politica. Il congresso doveva decidere se rinnovare o no i tagli fiscali introdotti durante la presidenza Bush: le dimensioni del debito pubblico avrebbero dovuto consigliare prudenza, evitando di rinnovare i tagli fiscali per lo meno alla fascia di popolazione più ricca; dall’altro lato, c’era il timore che alzare le tasse in questa fase economica potesse contribuire a strozzare i consumi e la ripresa, invece che rilanciarla. Già è complicata così, in realtà lo era molto di più: perché i repubblicani erano determinati a ottenere il rinnovo dei tagli alle tasse senza toccare nulla, perché l’ala sinistra del partito democratico malsopporta qualsiasi trattativa e compromesso con i repubblicani, perché i tagli fiscali di Bush sono molto popolari e perché dal prossimo gennaio, quando si insedierà il congresso eletto alle ultime elezioni di metà mandato, i repubblicani avranno di fatto la maggioranza per fare praticamente quello che vogliono.
Obama ha portato repubblicani e democratici a trattare, nel suo momento di massima debolezza, e ne ha tirato fuori un accordo che oggi viene definito dall’Associated Press “un trionfo”, dal New York Times “un punto di svolta” e così da moltissimi altri osservatori e commentatori. L’accordo prevede sì il rinnovo dei tagli alle tasse, ma Obama è riuscito a fare ingoiare ai repubblicani il passaggio di una serie di misure di stimolo all’economia e lotta alla disoccupazione che questi avevano sempre osteggiato. Charles Krauthammer, editorialista conservatore del Washington Post, ha scritto che “con questo sbalorditivo accordo sulle tasse, Obama è tornato”. Nel frattempo i sondaggi sono tornati a confortarlo, confermando il suo attuale vantaggio su qualsiasi candidato i repubblicani decideranno di candidare alle presidenziali del 2012. Nell’arco dei prossimi giorni, però, Obama si gioca un bel pezzo del rilancio della sua presidenza. Il Senato degli Stati Uniti, infatti, sarà chiamato a esprimersi su tre misure molto importanti sulle quali il presidente statunitense ha investito gran parte del suo capitale politico.
Della prima legge abbiamo parlato più volte, sul Post: è l’abolizione del “don’t ask don’t tell”, la norma che proibisce agli omosessuali di prestare servizio nell’esercito, costringendoli a tacere sul loro orientamento sessuale. Promesso da Barack Obama nel corso della campagna elettorale per le presidenziali, il provvedimento ha il sostegno del ministro della difesa e dei vertici dell’esercito. Dopo settimane di tira e molla, i democratici sembrano essere riusciti a superare le obiezioni dei repubblicani centristi e sembrano sulla buona strada verso il raggiungimento dei sessanta voti necessari a superare i tentativi di ostruzionismo. Il senatore Lieberman, democratico centrista, capofila dei sostenitori dell’abolizione del “don’t ask don’t tell” si è detto fiducioso che la misura otterrà anche più dei sessanta voti necessari per essere approvata. Oggi il Senato si esprimerà sulla procedura dell’approvazione della legge, primo scoglio da superare: se ci saranno i sessanta voti, ci saranno ottime possibilità che la norma venga approvata nei prossimi giorni.
Poi ci sono altri due voti molto importanti. Uno riguarda la ratifica del trattato START, l’accordo sul disarmo nucleare firmato lo scorso aprile dagli Stati Uniti e dalla Russia. I repubblicani si sono opposti, sostenendo che l’accordo indebolisce la difesa degli Stati Uniti. L’amministrazione è obbligata a farlo passare senza alcuna modifica, altrimenti i termini dovranno essere ridiscussi con la Russia e per giunta da una posizione di gran debolezza, visto che Obama avrà dimostrato di non riuscire a portare a termine quanto vuole ottenere. Il terzo e ultimo voto riguarda un progetto di legge che si chiama DREAM, dove DREAM è un acronimo di “Development, Relief and Education for Alien Minors Act”. La legge istituisce una strada per la regolarizzazione di centinaia di migliaia di ragazzi, figli di immigrati clandestini: di fatto, potrà diventare americana qualunque persona, figlia di immigrati clandestini, possa dimostrare di essere arrivata negli Stati Uniti da minorenne, averci vissuto per almeno cinque anni, aver frequentato con profitto una scuola superiore o aver prestato servizio nell’esercito per due anni. La legge è passata alla Camera con un sostegno più largo di quanto preventivato: oggi il Senato dovrà esprimersi anche su questa.
foto: Alex Wong/Getty Images