A Roma, attratto dalla violenze
Il racconto di uno studente che c'era, e che gli ha fatto orrore e tentazione assieme
di Enrico Rama
Io a Roma c’ero.
Quello che voglio qui raccontare non è tanto l’esperienza di quelle ore: chi c’era, chi è stato, chi ha cominciato per primo, poliziotti infiltrati sì, poliziotti infiltrati no.
Io voglio spiegare perché istintivamente guardavo quelle macchine bruciare e la mia testa diceva è sbagliato ma non potevo fare a meno di essere contento.
Partiamo da un fatto: non sono un violento/Black Block/comunista/professionista della violenza.
E, per l’infelicità degli introspettivi intellettuali con la passione per la psicologia spiccia ho una situazione familiare tranquilla e felice.
Mio padre è insegnante di filosofia, mi madre lavora in un negozio di abbigliamento. Famiglia molto impegnata ma poco politica. Cattolici silenziosi (i miei). Tutti di sinistra, ma nessun ex PCI.
In famiglia si lavora tutti e quattro (compresa mia sorella, matricola alla IUAV).
Quindi tutto tranquillo sul fronte familiare.
Per quanto mi riguarda sono studente a Padova, e sono fuoricorso da un anno.
Lo so: non è bello e non starò certo qua a lanciare accuse contro chissachì per questo ritardo, perché sarebbero solo scuse. Posso dire che mi sono perso un po’ via.
Questo preambolo forse non c’entra nulla ma tanto valeva farlo.
Torniamo al punto.
Quando era cominciata l’Onda, a Padova, me lo ricordo.
Era qualcosa di nuovo: un movimento studentesco diverso, non cupo e ideologico come al solito e quello che avvertivo con chiarezza era una netta componente postideologica.
Niente fascisti/comunisti, destra/sinistra, cattolico/ateo.
(Ricordo addirittura quando alcune componenti della destra studentesca manifestarono insieme alla sinistra: fu un attimo. Finì subito).
Insomma si cercava l’attenzione dei media con forme più disparate tutte il meno “ingombranti” possibili e magari nuove.
Si voleva in pratica, la simpatia del cittadino qualunque.
Ma non è andata così.
Ricordo le discussioni tra quelli che volevo bloccare la città, fermare i treni, assaltare le stazioni, scontrarsi con la polizia e quelli che dicevano, no questa è roba vecchia se facciamo così ci bollano di fanatismo e non ci ascolta più nessuno, dobbiamo ottenere risultati e così finiamo emarginati.
Erano discussioni interessanti dove si cercava di scacciare via da un movimento studentesco quella folta cerchia di intellettualoidi, cantori della rivoluzione, e comunisti di ogni declinazione, che da anni detengono il controllo dei movimenti studenteschi italiani (sempre le stesse facce, molti vecchi, molti professori).
La sentivo l’aria nuova e ne avevo il bisogno.
Non mi sono mai impegnato molto per paura e per manifesta inadeguatezza. Non credevo d’essere all’altezza, credevo ci volessero i Capanna (che proclamava orazioni in latino al parlamento) per guidare il movimento ed io, come s’è capito, non sono certo un Brainiac.
Avevo però idee ben precise.
Per farvi capire, ho sempre ritenuto che i primi a cui il movimento studentesco avrebbe dovuto rivolgersi fossero i sindacati di polizia.
Perché i poliziotti avevano (ed hanno) subito tagli gravissimi, perché erano proletari pure loro, statali mal pagati e anche loro con una buona dose di rancore verso il governo e perché so che tutte le rivoluzioni sono avvenute quando le forze dell’ordine sono passate dalla parte dei manifestanti, e una cosa del genere mediaticamente avrebbe rotto qualsiasi cosa: dal governo ai nostalgici del 68/77/Pantera.
Non ci ho manco provato a proporla una cosa del genere: figuratevi come l’avrebbero presa quelli che cioè no alla società proibizionista, cioè la nazione non esiste, la globalizzazione, potere operaio, autoformazione, polizia infame, ecc. ecc. e tutte le altre vaccate che si sentono in Italia da almeno trent’anni.
Poi non ho più seguito la cosa.
Perché, dal mio punto di vista, han preso il sopravvento questi vecchi rivoluzionari che scrivono gli asterischi sui manifesti al posto del morfema che indica il maschile o il femminile, quelli che mi sembrano sempre sul punto di fare il salto dal PCI a Berlusconi.
Quelli che avevano come leader e capi gente che è trant’anni o più che gira sempre negli stessi ambienti aspettando il momento propizio.
Quelli che, insomma, per me erano vecchi anche se avevano vent’anni.
Quindi ho mollato. Troppe assemblee e troppe poche cose da dire, più che altro sempre le stesse.
Ed è passato un anno.
Molti dei miei amici nel frattempo hanno lavorato per trattenere questa parte del movimento, per “istituzionalizzarla”, per non rompere il fronte della contestazione. E ce l’avevano quasi fatta.
Ed è qui che mi sono ritrovato sui binari della stazione di Padova.
Lì per lì, non c’ho pensato.
Ma poi m’è venuto in mente che io, un anno fa, non ci volevo andare sui binari.
E che se io un anno fa non ci volevo andare sui binari ed ora c’ero due cose erano avvenute: quelli del vecchio movimento avevano preso il sopravvento e io avevo torto.
E m’è montata la rabbia, la delusione d’aver perso, d’aver sbagliato.
Che le posizioni democratiche, di discussione dura, opposizione feroce, di studio e confronto con i capi partito per metterli all’angolo nelle loro stanze, per obbligarli a parlare, ad arrendersi davanti a chi reclama il proprio posto nel mondo, all’umiliazione da chi ha trent’anni meno di te ma cristo se ha ragione, avevano fallito se io ora mi ritrovavo lì a saltare sui binari e a urlare di gioia mentre la voce elettronica della stazione scandiva “si avvisa la gentile clientela che la stazione è occupata”.
Che era passata la linea non della comprensione della politica per agire nella politica, ma quella dello scontro duro di chi se ne frega.
E quando la riforma è passata mi sono reso conto di essere diventato perdente tra i perdenti.
Un doppio fallimento.
Ma la riflessione è morta lì, coperta dall’eccitazione del momento.
Il 14 qualcosa è cambiato.
Avreste dovuto esserci, tra i manifestanti quando per una manciata di minuti s’era diffusa la falsa notizia della caduta di Berlusconi.
Una Hola di proporzioni bibliche.
Pensavo: abbiamo vinto.
Avreste dovuto sentire la gioia trasformarsi in frustrazione quando è serpeggiata la verità.
La frustrazione per un paese che è sempre lo stesso da vent’anni. E che vuole rimanere tale a tutti i costi e ad ogni prezzo.
Per un paese che dice: se abbiamo superato le Brigate Rosse riusciamo a superare benissimo anche ‘sti quattro stronzi, e magari ci scappa pure un altro decennio di stabilità al potere.
Che non cambia e non tenta neppure ipocritamente di ascoltare le richieste d’aiuto.
Comandato da vecchi che non lasceranno le poltrone nemmeno dopo morti. Perché le lasceranno in eredità ai figli. O agli amici.
Avreste dovuto vedere i ragazzi mettersi i caschi e prepararsi.
Decisi a sfondare ed arrivare al parlamento.
Sono gli stessi che mi sono sempre trovato a criticare duramente. Gli stessi che non hanno una idea di futuro e se ce l’hanno non è applicabile perché taglia fuori troppe parti sociali.
Quelli con cui non ho mai, e ripeto mai, condiviso nulla.
Quelli troppo ideologici e relegati a letture abbozzate e schematiche di libri che adottano per leggere la realtà.
Quelli che si ascoltano solo tra di loro e convincono altri giovani a suon di facili slogan e una sorta di aura romantica da rivoluzionario che nasconde motivi più psicologici che politici.
Quelli arroganti che siccome han letto Tizio Caio o chi per lui allora io ho ragione e tu hai torto.
Quelli alternativi per presa posizione.
Ecco, io ero lì e non li ho odiati.
Non li ho fermati.
Per un attimo li ho quasi ammirati e non me ne sono neppure reso conto.
È stato istintivo, incontrollabile.
Avreste dovuto sentire il silenzio irreale prima della carica. L’isteria di massa per cui basta un nulla e tutti si mettono a sciamare come api impaurite.
Erano giovani, alcuni più giovani di me.
Alcuni neppure universitari.
Metà di questi, son sicuro, avevano solo idee vaghe del perché essere lì.
L’altra metà anche troppo chiare.
E mi sono trovato immobile. Fermo.
Ed è lì che mi sono incazzato di più: avevo torto, avevo sbagliato.
Le mie idee erano risultate errate al confronto con la realtà.
I miei metodi, tutto quel sistema di confronto e di novità in cui ho creduto è risultato falso e fallibile.
Mi hanno mentito. Mi hanno mentito i politici, gli intellettuali, i miei genitori, tutti. Con quei metodi non si ottiene nulla. Tutto falso.
Tutti i miei ideali si sono spiattellati come un’arancia contro un muro.
E sapevo che questo atteggiamento non avrebbe portato e non porterà nulla di buono o utile.
Si andrà sempre più allo scontro fino alla distruzione reciproca.
Perché anche se si riuscisse a smantellare uno Stato quello che rimarrà dopo sarà solo cenere.
Ma non vedo alternative.
Mi sono trovato fianco a fianco del mio nemico e gli ho sorriso e l’ho lasciato andare.
È così sono convinto abbiano pensato molti dei miei coetanei che non hanno partecipato alle violenze, non le condividono, non le farebbero neppure, ma non ci riescono a condannarle.
Non condivido ma capisco.
Questo da parte mia non è un grido di rabbia ma di disperazione per un sogno che si sta sgretolando, per una generazione che poteva portare linfa nuova nella vita italiana ma che sta lentamente scivolando verso la distruzione.
Come un padre che vede il figlio andarsene dal proprio paese. Non vuole, cerca fino all’ultimo di tenerlo lì, di dargli una possibilità.
Ma alla fine si arrende e capisce che lasciarlo è l’unica soluzione.
O come nella prima guerra mondiale quando Edward Grey disse “le luci si spengono su tutta l’Europa. In vita nostra non le rivedremo accendersi mai più” e poi dichiarò guerra.
E mentre guardavo una camionetta della polizia sfrecciare fuori da Piazza del Popolo, mentre fuggivo inseme a migliaia di ragazzi pensavo a quelli che erano là, dove c’era il fumo e gli scoppi.
Penso a cosa avrei fatto se ci fossi stato io là in mezzo.