Integrare i rom è possibile
Il New York Times racconta il successo dei programmi d'integrazione della Spagna
Non c’è bisogno di raccontare quale sia la condizione dei rom in Italia, tra pregiudizi, accampamenti in fiamme e accuse quasi sempre infondate. Quel che può essere utile è invece guardare cosa succede fuori dall’Italia, più precisamente in Spagna, un paese dove — come racconta il New York Times — il lavoro di integrazione dei rom va avanti da decenni, con diversi ottimi risultati. Sicuramente migliori di quanto succede, oltre che in Italia, in Francia, dove il presidente Nicolas Sarkozy negli scorsi mesi ha ordinato la chiusura di centinaia di campi rom in tutto il paese.
Al contrario di buona parte del resto d’Europa, la Spagna chiama i rom zingari: ma non con l’accezione dispregiativa usata in Italia bensì col significato di gitani, una parola che questi si portano addosso con orgoglio. E, sempre al contrario di buona parte del resto d’Europa, in Spagna i rom non vivono in accampamenti malmessi, ma per la maggior parte in case, una su due di loro proprietà. Tutti i bambini rom, almeno virtualmente, frequentano le scuole elementari pubbliche, e la maggior parte degli adulti fanno lavori convenzionali, gli stessi degli altri spagnoli.
Questi sono i risultati di trent’anni di programmi governativi volti all’integrazione dei rom, concentrati sempre su problemi molto pratici e poco politici: trovare un lavoro, trovare una casa, preoccuparsi per prima cosa di alzare gli standard della vita; un modello che potrebbe essere replicabile nei paesi che hanno risorse e strutture in grado di sostenerlo. Uno studio del 2009 condotto dalla Fondazione Secretariado Gitano ha stimato che in tutto, tra Bulgaria, Repubblica Ceca, Grecia, Portogallo, Romania, Slovacchia e Spagna, circa un terzo dei rom vivono in case sotto gli standard di vita, senza elettricità, riscaldamento e acqua calda. Ma se in posti come il Portogallo un terzo di loro vive in baracche, in Spagna il 92 per cento vive in case che rispettano gli standard. Un altro sondaggio, questo del 2005, stima che circa il 50 per cento dei rom lavora da regolarizzati.
I problemi non sono però tutti risolti, anzi. Il 4 per cento dei rom vive ancora in case disastrate, il tasso di abbandono della scuola tra gli 8 e i 18 anni è ancora molto alto — quasi l’80 per cento — e i pregiudizi di parte dei cittadini esistono ancora. Ma, scrive il New York Times, anche i difensori dei rom applaudono la Spagna considerandola diversi passi avanti rispetto a tutti gli altri paesi europei.
Originari dell’India, i rom sono arrivati in Spagna nel Quindicesimo secolo, dove hanno seminato qualcuna delle loro tradizioni, come il flamenco, ora parte dell’identità culturale spagnola. Nonostante questo, fino a pochi decenni fa sono stati perseguitati come lo sono ora nel resto d’Europa; per qualche tempo non potevano sposarsi tra loro, per un altro non potevano radunarsi in più di quattro persone alla volta. Sotto la dittatura di Franco sono stati attaccati violentemente, e costretti a spostarsi di continuo per sfuggire alla Guardia Civile.
Le cose sono cambiate negli anni Ottanta. La Guardia Civile ha iniziato a proteggere i bambini a scuola dai genitori spagnoli che non li volevano nella stessa classe, e da allora tutti i governi — di sinistra, di destra — hanno finanziato i programmi di integrazione per, nel corso degli anni, circa 700mila rom. Tra il 2007 e il 2013 la Spagna spenderà 130 milioni di dollari, più di ogni altro stato europeo. Se all’inizio alcuni programmi non hanno funzionato a dovere, come l’idea di spostare i rom direttamente dagli accampamenti a case popolari dedicate solo a loro, e quella di creare delle scuole di transizione per i bambini. Con il tempo la Spagna ha preso le misure del problema, e la situazione è pian piano migliorata.
(CRISTINA QUICLER/AFP/Getty Images)
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