«Non puoi giudicare un libro dalla copertina»
Un altra lista di luoghi comuni sulla lettura, descritti e confutati
Dopo la sua prima lista di luoghi comuni sulla lettura, molto apprezzata e circolata in rete, il docente universitario e collaboratore di Internazionale Guido Vitiello ha deciso di proseguire nell’impresa.
Dopo il primo Sciocchezzaio libresco, prosegue l’opera collettiva di censimento (e, ove possibile, di demolizione) dei principali luoghi comuni sui libri e sulla lettura. Ringrazio i molti che hanno contribuito con le loro idee e osservazioni: questo secondo sciocchezzaio si deve in gran parte al loro aiuto.
I libri sono cibo per la mente
Suona bene, vero? Ma spesso nasconde un indiscriminato invito alla bulimia letteraria. Mancano i necessari corollari dietologici (e tossicologici): certi libri sono bacche velenose, e a legger tutto come figli dei fiori si finisce come il buontempone di Into the Wild con i suoi semi di patata ammuffiti. Per parte mia, ordino le mie letture in uno spettro che va dai libri-crostaceo (in genere filosofi tedeschi, dove bisogna lottare con pervicaci corazze ed esoscheletri per arrivare, sfiniti, a un minuscolo gheriglio di polpa rosa) ai libri-passato di verdure (sono quelli che fanno vanto del loro stile scorrevole, e che non incontrano resistenza alcuna nella loro marcia dentro il nostro organismo). In breve, gli indigesti e i predigeriti. L’idea di quest’ordine mi venne da adolescente quando mio padre, vedendo sulla mia scrivania La società aperta e i suoi nemici di Karl R. Popper e un libro di qualche effimero saggista francese, forse il Baudrillard senile, mi domandò: che cosa ci fanno l’uno accanto all’altro una bistecca e un soufflé?Non puoi giudicare un libro dalla copertina
Lo diceva anche il dottor Frank-N-Furter, il “dolce travestito” del Rocky Horror Picture Show: Don’t judge a book by its cover. E invece, altroché se possiamo giudicare. Siamo qui in presenza di un caso particolare di un luogo comune più generale, quello secondo cui “l’abito non fa il monaco” (ho provato a confutarlo qui). La veste editoriale è una miniera di informazioni, ed è rarissimo che in questo il nostro fiuto ci tradisca. Per parte mia, evito accuratamente, per esempio, i libri di ottocento pagine con il titolo a rilievo in oro e magari la sagoma di un gabbiano stagliata contro un cielo al tramonto; oppure i romanzi che hanno in quarta di copertina la foto di qualche signora americana dentona dai capelli cotonatissimi (di cui si spiega, nel risvolto, che dirige una scuola di scrittura creativa nel Wyoming). O i libri freschi di stampa che esibiscono una fascetta dove è scritto, a caratteri cubitali, “nove edizioni in due giorni”, se non addirittura “un grande classico”. Un altro genere di cui diffidare a colpo d’occhio, oggi, è quello dei libri-confessione con donna in chador o bambino-soldato in copertina e titolo in prima persona, del tipo Io, schiava. Ma l’intuito non tradisce mai, o quasi. Se non mi credete, fate un esperimento: lanciatevi in una corsa forsennata in una grande libreria, un po’ come i tre ragazzi di Bande à part tra le sale del Louvre. Con la coda dell’occhio, sarete in grado di capire infallibilmente dov’è che vale la pena fare una sosta.