La brutta fine di John McCain
La stampa statunitense si chiede perché McCain non è più il politico anticonformista di una volta
di Francesco Costa
Nei giorni scorsi sulla stampa statunitense sono usciti due articoli diversi – uno su Slate, uno sull’Atlantic – riguardo John McCain, il senatore repubblicano che alle ultime presidenziali contese l’elezione alla Casa Bianca al democratico Barack Obama. Entrambi fanno riferimento alle posizioni assunte da McCain nel corso della discussione sull’abolizione del “don’t ask don’t tell”, la norma che permette agli omosessuali di prestare servizio nelle forze armate americane solo se questi mentono riguardo il loro orientamento sessuale. Ed entrambi si stupiscono della china intrapresa da McCain – addirittura l’Atlantic parla del “mistero di John McCain” – sebbene il suo comportamento sia identico a quello degli altri senatori repubblicani.
In realtà, il comportamento di John McCain è un “mistero” proprio perché è identico a quello degli altri senatori repubblicani. Nei suoi oltre vent’anni di permanenza al Senato, infatti, McCain si era sempre distinto come un maverick, un ribelle, un personaggio fuori dai canoni del suo partito e in grado come pochi altri di fare da ponte tra i repubblicani e i democratici. McCain per anni è stato uno dei senatori statunitensi più popolari e stimati, ricevendo grande considerazione anche dai suoi avversari per il suo non cedere mai alla demagogia e al populismo, per la sua capacità di lavorare proficuamente con i suoi colleghi del partito democratico, per le sue posizioni liberali sull’immigrazione e sui diritti civili, decisamente poco ortodosse per un repubblicano. Proprio per questa ragione, infatti, nel 2008 scelse Sarah Palin come suo vice: perché il suo profilo era decisamente troppo poco conservatore per poter far presa sulla base del partito repubblicano.
Per fare un esempio, su tutti: McCain è il politico che a un mese dalle elezioni presidenziali, quando i sondaggi lo davano in grande difficoltà, prende la parola a un evento di campagna elettorale per contraddire e rimproverare una sua elettrice che aveva fatto un intervento definendo Barack Obama qualcosa di simile al male assoluto e insinuando che non fosse americano. McCain la interrompe, le strappa il microfono dalle mani e difende lo stesso Obama, definendolo “una brava persona, una persona di cui non dovete avere paura”.
Quel McCain a un certo punto è scomparso. Inizialmente è stato messo all’angolo dalla dura battaglia per la rielezione al Senato. I tea party, infatti, presentavano in Arizona un loro candidato, J. D. Hayworth, dalle posizioni ben più conservatrici ed estremiste di quelle di McCain. E questo non era l’annata giusta per avere posizioni anticonformiste, e quindi McCain – venendo meno al suo proverbiale coraggio – si è progressivamente spostato a destra, rinnegando le sue posizioni moderne e progressiste sull’immigrazione nel tentativo di arginare i suoi oppositori. C’è riuscito: ha vinto le primarie e poi a novembre si è confermato senatore dell’Arizona.
A quel punto, disinnescata la minaccia delle elezioni, molti pensavano che avremmo rivisto il solito McCain, quello che si era guadagnato l’appellativo di maverick. La discussione sul “don’t ask don’tell” li ha delusi. John McCain è il capo dei repubblicani alla commissione del Senato sulle forze armate ed è un grande esperto in materia, avendo lui stesso prestato servizio nell’esercito per vent’anni. La sua posizione sulla presenza degli omosessuali nell’esercito era sempre stata questa:
Il giorno che i vertici dell’esercito verranno a dirci che bisogna cambiare la norma, allora dovremmo prendere in seria considerazione la possibilità di farlo, visto che sono loro le persone a cui è giusto dare questa responsabilità.
All’inizio della presidenza Obama, le condizioni si sono verificate: i vertici della gerarchia militare statunitense, cioè il presidente degli Stati Uniti, il capo di stato maggiore e il ministro della difesa hanno sostenuto apertamente e pubblicamente la necessità di abolire quella legge. McCain allora ha alzato ancora l’asticella, dicendo che la norma era stata proposta e caldeggiata da Colin Powell quando era capo di stato maggiore, e non gli risultava che questo avesse cambiato idea. Passano poche ore e Powell, raggiunto dai giornalisti, dice che “i tempi sono cambiati” e che sostiene “completamente” la posizione del ministro della difesa e del capo di stato maggiore.
Allora McCain ha preso ancora tempo. Ha chiesto che la questione venisse sottoposta ai membri dell’esercito, con un sondaggio: ha detto che dato che il cambio di approccio riguarderà proprio loro, i soldati, è fondamentale sapere cosa ne pensano. Si tratta di un’idea già di per sé piuttosto bizzarra, perché il compito dei soldati è obbedire agli ordini e nessuno ha mai pensato di consultarli riguardo la possibilità di dichiarare o no guerra a qualcuno o intraprendere qualsiasi iniziativa. Ma il Senato ha acconsentito, il sondaggio è stato effettuato e pochi giorni fa ne sono stati resi noti i risultati: oltre il 70 per cento dei soldati interpellati ha detto che il cambio di norma non avrà conseguenze sul suo lavoro o ne avrà di positive. Conclusione: i rischi che cambiare norma possa minare l’umore e l’efficienza dei soldati sono “molto bassi”.
Niente da fare, McCain ha rilanciato di nuovo: ha detto che il sondaggio ha trascurato le opinioni dei soldati impiegati in missione, quelli che portano a termine le operazioni più delicate, e quindi non è affidabile. Dimenticandosi – o magari no, a questo punto – che l’abolizione del “don’t ask don’t tell” è stata sostenuta e sponsorizzata anche dal generale David Petraeus, capo delle forze armate prima in Iraq e poi in Afghanistan, probabilmente in questo momento il militare statunitense con maggiore esperienza sul campo di battaglia. “John McCain ha finito le scuse”, scrive Fred Kaplan su Slate.
(Chip Somodevilla/Getty Images)