L’impero della Red Bull
Lo Spiegel spiega come l'azienda produttrice di bevande energetiche sta cambiando lo sport
Una scuderia di Formula Uno, diverse squadre di calcio, 456 atleti in un centinaio di sport diversi, dallo snowboard al motocross, dal beach volley all’hockey; poi un canale televisivo, diverse riviste sportive e non, una compagnia telefonica: ogni anno Red Bull spende mezzo miliardo di dollari nello sport. Con un’investimento economico inferiore solo rispetto a quelli di Nike, Adidas e Coca Cola, la società austriaca è quella che più di ogni altra negli ultimi vent’anni si è impegnata a entrare nel mondo dello sport, per modificarlo e innovarlo. Una strategia di marketing che va ben oltre la semplice sponsorizzazione, scrive lo Spiegel.
La recente vittoria di Sebastian Vettel per la Red Bull Racing nel campionato di Formula Uno è solo l’ultimo e più grande successo sportivo (e, di conseguenza, di immagine) dell’azienda che produce l’omonima bevanda energetica. La politica della società, dettata dal suo fondatore Dietrich Mateschitz, è sempre la stessa: non limitarsi a finanziare una squadra o un atleta appiccicando adesivi su automobili, snowboard e visiere di cappellini, ma entrare prepotentemente nelle discipline sportive, acquistando direttamente i team e curando in prima persona la carriera dei propri campioni. Quando Red Bull compra un team lo rinomina col proprio nome e sostituisce tutta la dirigenza nominandone una nuova. Sceglie su quale atleta puntare e su quale no, selezionandoli sia in base alle qualità sportive che all’immagine, puntando al ringiovanimento.
L’azienda ha seguito e allenato Vettel, il più giovane pilota a vincere un mondiale nella storia della Formula Uno, da quando aveva undici anni. La prima tappa dopo la vittoria l’ha fatta alla festa Red Bull in Austria, per riconoscenza (e obbligo, chiaro) nei confronti di Mateschitz e l’azienda. Vettel non è stato scelto solo per le capacità, ma anche per l’immagine umile e da bravo ragazzo. Red Bull ha alzato l’asticella anche nel campo dell’impatto visivo sui circuiti, creando un paddock (l’area riservata a ogni team) superiore a quello delle altre scuderie. Anche per atmosfera, dove chiunque è benvenuto a bere una Red Bull ascoltando musica ad alto volume seduto su un divano.
Il quartier generale di Red Bull si trova a Fuschl am See, un paese di 1.500 abitanti a est di Salisburgo, in Austria. Da quando è stata fondata nel 1987, la società si è espansa a vista d’occhio e ora vende 4 miliardi di lattine ogni anno per un guadagno di 3.3 miliardi di euro. Ha 6.900 impiegati di cui 500 a Fuschl am See, il quartier generale che non presenta né loghi né scritte ed è riconoscibile solo dai frigoriferi rossi e blu che si intravedono dall’esterno. Mateschitz, il fondatore, è l’unico responsabile dei rapporti con la stampa: passa due volte al mese a Fuschl am See e rilascia interviste solo a un piccolo gruppo di giornalisti che conosce bene, tra cui diversi austriaci, che sono autorizzati a chiamarlo “Didi”; tutti gli altri devono accontentarsi di risposte via mail. Mateschitz non ama i riflettori su se stesso: li vuole tutti puntati sul suo marchio.
Prima di fondare Red Bull Mateschitz lavorava come direttore marketing di un’azienda di dentrifrici. All’inizio degli anni Ottanta ha assaggiato ad Hong Kong una bevanda che lo ha colpito e ha deciso di portarla in Occidente, iniziando a costruirci intorno una campagna pubblicitaria forte in grado di creare la richiesta per qualcosa — le bevande energetiche — che nessuno aveva richiesto. Pochi giorni dopo l’apparizione delle prime lattine nei supermercati, il pilota della Ferrari Gerhard Berger, amico di Mateschitz, è apparso sulla tv austriaca ORF mentre faceva jogging bevendo una Red Bull su una spiaggia brasiliana. Il giorno dopo le vendite sono salite in verticale.
A ventitrè anni di distanza, Mateschitz si butta su qualsiasi occasione, in campi molto diversi tra loro. Investe nello sport, possiede il canale televisivo Servus TV, una compagnia telefonica che opera in Austria, Ungheria e Svizzera e diverse riviste di sport — calcio, motociclismo —, gossip e costume. Dopo aver acquistato la scuderia in Formula Uno ha provato a spingere la bevanda nel mercato americano — dove la Formula Uno non è molto seguita — comprando i New York MetroStars, “la caricatura di una squadra di calcio”, la definisce lo Spiegel. In molti pensavano che la mossa, già tentata da altri impresari prima, fosse un errore, ma Mateschitz li ha smentiti. Ha rivoluzionato la squadra a partire dallo stadio, abbandonando quello dei Giants per il nuovo Red Bull Arena da 200 milioni di dollari con 25mila posti. Ha abbassato il prezzo dei biglietti a 25 dollari, rendendole gli eventi sportivi di rilevanza nazionale più economici da seguire a New York, spingendo sempre più spettatori allo stadio, ormai quasi sempre pieno a ogni partita. Red Bull ha poi incominciato a scegliere direttamente allenatore e giocatori, svecchiando la squadra e tentando di modernizzare e velocizzare il gioco, in linea con l’immagine della bevanda. La strategia di Red Bull è stata in parte ostacolata in Germania, dove per regolamento è vietato dare alle squadre il nome dello sponsor.
Uno sport in cui l’entrata in scena di Red Bull è stata particolarmente significativa è lo snowboard. Come Sebastian Vettel, lo snowboarder Shaun White è diventato un prodotto Red Bull. Nonostante fosse bravo e discretamente famoso anche prima di essere sponsorizzato dall’azienda, la sua immagine — e quella di questa disciplina in generale — è stata rivoluzionata da quando è stato marcato Red Bull. Se prima gli snowboarder, anche quelli di alta caratura, si allenavano in gruppo, studiandosi e incoraggiandosi a vicenda mantenendo uno spirito amichevole, ora Shaun si allena da solo, nel suo half-pipe privato da mezzo milione di dollari che gli ha costruito Red Bull. Il ventiquattrenne Shaun guadagna dieci milioni di dollari all’anno solo dalla pubblicità, e invece di girare in aereo per i tornei insieme ai suoi colleghi vola con l’elicottero privato e le guardie del corpo. Il suo atteggiamento è diventato più strafottente, sì: come scrive lo Spiegel, però, non è semplice incolpare Shaun o Red Bull per il comportamento di un atleta che in fin dei conti riesce nel suo obiettivo: vincere.