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  • Venerdì 12 novembre 2010

L’attesa di Aung San Suu Kyi

Centinaia di persone hanno iniziato a raccogliersi intorno alla sua casa e alla sede del suo partito

Centinaia di persone hanno iniziato a raccogliersi intorno alla casa di Aung San Suu Kyi e alla sede del suo partito (Lega Nazionale per la Democrazia) da questa mattina, quando le voci sulla sua imminente liberazione si sono fatte sempre più insistenti. Aung San Suu Kyi – premio Nobel per la Pace e leader dell’opposizione birmana – è agli arresti domiciliari da quindici anni. La scadenza della sua condanna è fissata ufficialmente a domani – 13 novembre – ma alcune indiscrezioni circolate nelle ultime ore avevano lasciato credere che la sua liberazione potesse avvenire prima del previsto. Fonti vicine a Aung San Suu Kyi hanno fatto sapere che la giunta militare a capo del regime birmano avrebbe già firmato l’ordine di liberazione. Ma ormai in Birmania sono già le 19.48 e sembra probabile che Suu Kyi passerà un’altra notte agli arresti nella sua casa di Rangoon.

Aung San Suu Kyi è considerata la più importante dissidente al mondo dai tempi della detenzione di Nelson Mandela. Figlia di un generale del Partito comunista birmano, la sua famiglia è sempre stata al centro delle vicende politiche del proprio paese. Da giovane studiò a New York e poi a Londra, per poi cominciare a lavorare alle Nazioni Unite. Ritornata in Birmania nel 1988, proprio nel mezzo delle grandi manifestazioni studentesche di protesta di quell’anno, fondò la Lega Nazionale per la Democrazia in risposta alla presa di potere di una nuova giunta militare. Quando due anni dopo i capi della giunta decisero di concedere libere elezioni per sancire la propria ascesa al governo, il partito guidato da Aung San Suu Kyi ottenne una schiacciante vittoria con più dell’ottanta percento dei voti. Ma i militari annullarono le elezioni e la arrestarono.

Domenica scorsa in Birmania si è votato per la prima volta dopo vent’anni e come previsto, con il 75 percento dei voti scrutinati, i risultati hanno dato una larga maggioranza di preferenze ai due partiti della giunta militare che controlla il paese dal 1962. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e altri leader europei si sono già pronunciati contro la legittimità delle elezioni, che non rispetterebbero gli standard internazionali. A giornalisti e osservatori stranieri è stato proibito l’ingresso nel paese, oltre duemila dissidenti sono ancora in carcere e le complesse leggi elettorali hanno impedito a molti di candidarsi e votare. Tra questi ovviamente Suu Kyi, che anche per questo aveva chiesto al suo partito e ai cittadini birmani di boicottare le elezioni.

La giunta militare le aveva concesso la libertà dagli arresti domiciliari nel 2002, per poi subito ripristinarli dopo che migliaia di persone avevano iniziato a radunarsi intorno alla sua casa acclamandola come loro leader. Nell’agosto del 2009 fu accusata per avere apparentemente violato i termini degli arresti domiciliari, violazione che può essere punita con cinque anni di carcere. Suu Kyi si è sempre dichiarata innocente, ma tutti e tre i suoi ricorsi in appello per ottenere una completa assoluzione sono stati respinti: l’ultimo proprio ieri. In molti ora si chiedono che cosa aspetterà San Suu Kyi se davvero sarà liberata e quale potrà essere il suo ruolo politico. Alcuni temono che dopo decenni di isolamento forzato potrebbe avere perso la capacità di unire l’opposizione, ora frastagliata e in preda a una lotta interna. In ogni caso, dovrà rapportarsi con una classe dirigente che, scrive IPS, sarà diversa dai precedenti comandanti militari e meno incline a trattare con lei come successo in passato. L’avvocato di Aung San Suu Kyi ha detto che la donna non accetterà alcuna condizione per la sua liberazione.

Secondo Amnesty International è possibile che – una volta assicuratosi la vittoria alle elezioni – il regime birmano abbia deciso di liberare Aung San Suu Kyi per cercare di riguadagnare un minimo di legittimità a livello internazionale, ma che in ogni caso anche la sua eventuale liberazione non potrà essere considerata una svolta per la Birmania: «Se San Suu Kyi dovesse cercare di nuovo di mobilitare i suoi sostenitori la giunta militare potrebbe riarrestarla immediatamente», ha detto Niall Couper. Per avere invitato il popolo birmano a boicottare le elezioni, il regime ha infatti ordinato lo scioglimento del partito di Aung San Suu Kyi. Secondo molti analisti, quindi, il fatto che Suu Kyi continui a mantenere rapporti con un partito ufficialmente considerato illegale potrebbe essere usato come pretesto dalla giunta militare per arrestarla di nuovo. Il suo ritorno sulla scena politica potrebbe infatti essere considerato una minaccia troppo pericolosa per il nuovo governo che si sta formando.