“Berlusconi ha bisogno di una chiavetta”
La storia dell'intercettazione di Fassino su Unipol raccontata negli interrogatori di chi la spedì al Giornale
L’edizione di oggi di Repubblica riporta le trascrizioni degli interrogatori nei quali Roberto Raffaelli e Fabrizio Favata, imprenditori della società di intercettazioni RCS, racconta come il nastro contenente la famosa frase di Fassino sull’acquisizione di BNL da parte di Unipol (“Allora abbiamo una banca?”) fu proposta e poi consegnata nelle mani di Paolo Berlusconi e del Giornale. La notizia era uscita ieri, e il Corriere della Sera aveva scritto che l’intera vicenda assumeva “tonalità fantozziane”.
I protagonisti della storia sono tre imprenditori. Uno è Roberto Raffaelli, appunto, proprietario di una società che svolge intercettazioni per conto delle procure. Uno è Fabrizio Favata, suo socio e collega ed ex socio di Paolo Berlusconi, che ha raccontato molto di questa storia negli ultimi mesi e si è lamentato del fatto che Berlusconi non lo avrebbe ricambiato come promesso. Il terzo è Eugenio Petessi, altro imprenditore, il primo ad apprendere dell’esistenza di quella registrazione particolarmente delicata. Poi c’è Paolo Berlusconi, fratello del premier ed editore del Giornale.
Fabrizio Favata racconta di aver saputo dell’esistenza dell’intercettazione a settembre del 2005, e di averla fatta ascoltare in quel periodo a Paolo Berlusconi, insieme al suo socio Raffaelli. L’incontro avviene in via Negri, dove Berlusconi ha il proprio ufficio. “Era chiaro che lo scoop era in prospettiva della pubblicazione su il Giornale”. Il nastro però non può essere diffuso immediatamente, perché in quella fase la procura non ce l’ha ancora: in caso di pubblicazione la pista porterebbe dritta a Favata e Raffaelli, unici possessori della registrazione. A novembre le cose cambiano.
«Verso novembre, Raffaelli dice: questo file adesso è su 5-6 computer della procura, ora non possono più risalire a me». Cessato il rischio di essere individuato come la talpa e inchiodato, la macchina si rimette in moto. «Fra Natale e Capodanno mi telefona Paolo – insiste ancora Favata – Vengo a Milano e ci incontriamo nel suo ufficio in via Negri. Tutti gli incontri sono sempre avvenuti lì, tranne ad Arcore una volta e in un ristorante. Ero solo e mi chiede una copia della registrazione. Chiamo Raffaelli, ci incontriamo e gli dico che Berlusconi ha bisogno di una chiavetta».
Passa dell’altro tempo. Il 27 dicembre 2005 Favata telefona a Raffaelli proponendo un incontro. I due si vedono in piazza della Repubblica, a Roma. Raffaelli porta con sé la chiavetta USB contenente la registrazione: la passa a Favata che a sua volta la invia al Giornale. Prima di Natale c’è stata però la visita a casa Berlusconi: quella nel corso della quale il premier si sarebbe “appisolato”.
L’uomo al quale la Procura si affidava per le intercettazioni, infatti, adesso racconta che il computer portato ad Arcore ebbe difficoltà di accensione e di caricamento, fino a impallarsi. Il tempo trascorso finì così per annoiare il presidente del Consiglio, che si sarebbe persino appisolato, mentre Paolo Berlusconi avrebbe rinviato la questione. A distanza di qualche giorno, il fratello del premier chiese a Raffaelli se fosse possibile ottenere una copia del contenuto del computer: richiesta che Raffaelli afferma d’aver esaudito, spedendo per posta in forma anonima alla sede de Il Giornale una «chiavetta» informatica con la telefonata poi pubblicata il 31 dicembre 2005 e il 2 gennaio 2006.
Ci sono evidentemente una serie di contraddizioni, e non si capisce se il nastro alla fine sia stato inviato al Giornale da Favata o Raffaelli, e nemmeno se tutti gli incontri con i Berlusconi siano stati sollecitati da questi ultimi o dai due imprenditori in possesso dell’intercettazione. Non è detto che le versioni non possano cambiare ancora: d’altra parte fino a poche settimane fa Raffaelli negava tutto, oggi dice “per difendere l’azienda”.
C’è un terzo personaggio di cui si sa meno, intanto, che è quel Petessi che segnala a Raffaelli l’esistenza del nastro. Gli interrogatori pubblicati da Repubblica dicono qualcosa in più.
«Dopo aver conosciuto Raffaelli – ricorda a verbale Petessi – e dopo che mi chiese la disponibilità a emettere fatture per operazioni inesistenti mi disse che incontrava difficoltà al ministero di Giustizia, dove alcuni funzionari gli remavano contro». A questo punto Petessi si mette in moto. «Dato che conoscevo da moltissimi anni l´avvocato Martinez, che era anche l´avvocato dell´allora ministro della Giustizia Castelli, pensai di metterlo in contatto con Raffaelli… Tra l´altro avevo saputo che in quel periodo, nello studio lavorava come praticante avvocato tale Simonetti, che era il segretario particolare del ministro».
Petessi ricorda a verbale anche i pagamenti effettuati. «Raffaelli mi aveva chiesto di emettere fatture nei confronti di Rcs, perché aveva bisogno di giustificare delle uscite dal bilancio della società. Le prime due sono state di circa 30mila euro… di fatto io ho utilizzato la somma suddetta per compensare l´interessamento di Martinez, anche perché Raffaelli mi aveva detto che l´avvocato non gli aveva chiesto nulla, ma che si sarebbero accordati alla fine». In tutto «complessivamente ho versato a Martinez una somma intorno a 100 mila euro».
Una cifra apparentemente ben spesa, stando a questa versione. «Dai discorsi di Raffaelli – insiste Petessi – ho saputo che si era incontrato al ministero con alcuni funzionari… Mi è sembrato di capire peraltro che tali contatti siano stati procurati dal segretario di Castelli piuttosto che dal ministro, con cui credo Raffaelli non sia mai riuscito a incontrarsi». Il 20 gennaio scorso, convocato come testimone, l´avvocato Antonello Martinez ha confermato di essersi interessato alla pratica Raffaelli, ma ha negato di aver ricevuto alcun compenso. L´ex braccio destro del ministro, Stefano Simonetti, ha riconosciuto di aver presentato a Raffaelli funzionari del ministero, ma di non aver mai ricevuto denaro direttamente dalla Rcs.