Gli Stati Uniti a sette giorni dal voto
Punto della situazione sulle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti, a sette giorni dal voto
di Francesco Costa
Tra una settimana esatta gli Stati Uniti voteranno per le elezioni di metà mandato, e qui al Post ci prepariamo alla diretta che metteremo in piedi la notte tra il 2 e il 3 novembre per seguire i risultati. Le cose fondamentali da sapere le abbiamo già spiegate, e qui non troverete niente che non abbiamo già detto: solo aggiornamenti giorno per giorno, da qui al 2 novembre. Eccetto un paio di cose, utili a capire quanto segue senza costringervi a recuperare le cose passate, se non avete voglia.
La prima: si vota per rinnovare tutti i 435 membri della camera dei rappresentanti e un terzo di quelli del senato (quindi 33 o 34, più quelli rimasti vacanti o occupati da membri “provvisori”: quest’anno saranno 37). In più si vota anche per eleggere i governatori di 39 stati. La seconda: i democratici potranno considerare una vittoria l’aver conservato la maggioranza sia alla camera che al senato. Vale l’opposto per i repubblicani: vincono se strappano ai democratici sia la camera che il senato. In questo momento i repubblicani sembrano quasi certi di conquistare la camera e i democratici sono quasi certi di conservare una piccola maggioranza al senato: le possibilità che i repubblicani conquistino anche il senato sono più o meno le stesse che i democratici mantengano la maggioranza alla camera, cioè pochissime. Lo scenario per cui i repubblicani conquistano la maggioranza in uno solo dei due rami del congresso potrebbe essere considerato un pareggio.
Cose da tenere d’occhio
Ci sono vari collegi che è bene tenere d’occhio e i cui risultati sono ancora in bilico. Il blogger americano Josh Marshall oggi ne mette a fuoco quattro. In Nevada si gioca la rielezione il leader dei democratici al senato, Harry Reid, in quella che probabilmente è in assoluto la più importante competizione elettorale a questo giro, dato il suo valore simbolico. Poi l’Illinois, dove il seggio una volta occupato da Barack Obama rischia di finire ai repubblicani, poi Colorado e West Virginia. Noi ci aggiungiamo anche la Florida, dove l’ex repubblicano Charlie Christ sta perdendo terreno nei confronti di Marco Rubio, il candidato dei tea party, e il Kentucky, dove il bizzarro Rand Paul rischia davvero di arrivare in senato (ma ci arriviamo, tra poco).
Chi ha già votato
Una cosa di cui si discute molto in questi giorni sono gli esiti del cosiddetto early voting. Negli Stati Uniti, infatti, è possibile andare a votare da quattro o cinque giorni prima del giorno delle elezioni, per permettere di esprimere un voto a chi il 2 novembre non potrà farlo e per smaltire per quanto possibile l’affollamento ai seggi. Come probabilmente sapete, gli elettori statunitensi che vogliono votare devono iscriversi nelle liste elettorali, e nel farlo devono dichiarare la loro appartenenza partitica: democratici, repubblicani o indipendenti. Quindi analizzando quali elettori sono già andati a votare è possibile registrare qualche tendenza, prendendola con le molle: ovviamente niente vieta a un elettore registrato come democratico di votare un candidato repubblicano, ma la storia dimostra che raramente le preferenze degli elettori si discostano dalle loro dichiarazioni in fase di registrazione. La differenza la fanno l’affluenza, l’entusiasmo, la partecipazione al voto: e fino a questo momento i dati sembrano indicare una grande risalita dei repubblicani rispetto al 2008 ma anche una buona tenuta dei democratici, che non confermano il boom delle ultime presidenziali ma tengono il passo delle elezioni del 2006, che furono comunque per loro una grande vittoria. Ne parla più diffusamente Marc Ambinder, giornalista dell’Atlantic, qui e qui.
I dibattiti
Ieri in Florida si è tenuto un dibattito televisivo tra i due candidati a governatore, il democratico Alex Sink e il repubblicano Rick Scott. A un certo punto, durante una pausa pubblicitaria, un assistente di Sink è andato da lui e gli ha mostrato un cellulare, sul cui display appariva un consiglio per la fase seguente del dibattito. La cosa era vietata: le regole sottoscritte da entrambi i candidati proibiscono le comunicazioni tra questi e i loro staff durante il dibattito. Il candidato repubblicano se n’è accorto e lo ha fatto presente al funzionario della CNN, che ha confiscato il cellulare. Dopo il dibattito la campagna di Sink ha comunicato di avere licenziato l’assistente.
Stasera invece gli occhi sono sul dibattito in Kentucky tra Rand Paul e Jack Conway, che nel loro primo incontro se n’erano dette di tutti i colori. Anche stavolta le premesse non sono proprio eccezionali: un’attivista democratica è stata spintonata da alcuni sostenitori di Rand Paul, e uno di questi le ha messo un piede sulla testa quando è caduta a terra. Ci sono le foto e i video, inequivocabili: Conway è in leggero svantaggio e probabilmente stasera giocherà all’attacco anche su questo.
L’aria che tira
Il fatto che non sia più il 2008, per Barack Obama, si vede anche da cose come quella accaduta in Rhode Island. Il presidente è stato in visita per alcuni eventi di campagna elettorale ma non ha fatto endorsement ufficiali al candidato democratico, Frank Caprio. Quando i giornalisti gli hanno chiesto se c’è rimasto male, Caprio ha risposto che per quel che gli riguarda Obama l’endorsement “se lo può mettere dove gli pare”.
Cose da leggere
Ultime due cose, letture serali. Una per simpatizzanti dei repubblicani: l’inchiesta sui tea party del Washington Post, che ha telefonato a tutti i gruppi presenti su internet e ha chiesto loro cosa fanno e di cosa si occupano in questa campagna elettorale: i risultati sono meno scontati di quanto potrebbero sembrare. Una invece per i sostenitori dei democratici che ci credono ancora: un articolo di Newsweek su come i democratici possono vincere. È sicuramente esagerato, perché è scritto come se la vittoria dei democratici nel 2008 fosse avvenuta a sorpresa mentre invece era annunciata da tutti i sondaggi, ma vale la pena dargli un’occhiata, e magari potete girarlo al vostro amico americano per convincerlo ad andare a votare.
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