Fofi contro il Dams
Goffredo Fofi ha scritto che l'università bolognese e le sue imitazioni si sono rivelate un bluff, e sono seguite polemiche
Goffredo Fofi è un intellettuale e critico di 73 anni e tuttora molto attivo nella produzione di pensieri e opere costruttive sui destini del mondo, della cultura e dell’Italia, soprattutto attraverso la sua rivista “Lo Straniero”, la casa editrice “dell’Asino” e molti incontri pubblici in tutta Italia. Il suo sguardo severamente critico rispetto ai disastri contemporanei di questi ambiti è rimasto combattivo e lucido, a differenza di quello di molti suoi colleghi e coetanei che si sono rifugiati in generiche dichiarazioni nostalgiche e catastrofiste.
Fofi ha una rubrica settimanale sull’Unità, e domenica scorsa l’ha dedicata al Dams, l’università bolognese dedicata alle arti contemporanee che è entrata nella storia italiana soprattutto per la costruzione di un grande luogo comune antropologico legato al cliché dello “studente del Dams”: e secondo Fofi non ci sarebbe stato molto altro, nei suoi quarant’anni di storia, se non fallimenti.
Come è accaduto che, nonostante la buona fede e l’energia dei pionieri e di tanti degni insegnanti e artisti-insegnanti, queste scuole si siano rivelate col tempo un bluff? Il loro fallimento mi pare indubbio sul piano delle possibilità professionali: oggi i Dams sono una delle più attive fabbriche di disoccupati o precari. Le possibilità di occupazione post-laurea in una società ricca in cui la comunicazione contava più della produzione sembrarono per un certo tempo infinite, ma con la crisi e in particolare dopo il 2009, l’euforia è scemata, e la formazione che i Dams hanno dato ai loro studenti si è rivelata superflua nella drastica diminuizione dei posti di lavoro, soprattutto in campo culturale e artistico. Berlusconi-Bondi-Tremonti tagliano i fondi al necessario e anche all’indispensabile, figuriamo al superfluo. Tanto più che per loro, da sempre, la cultura, se non è televisione e finanza, è una parolaccia, è il superfluo per eccellenza. Cosa ne è e cosa ne sarà delle migliaia e migliaia di sventurati che si sono laureati nei Dams, soprattutto negli ultimi anni? Conosco genitori e studenti che malediscono le loro scelte.
Le accuse di Fofi si riconducono all’idea che madre del declino della cultura italiana sia la trasformazione della cultura suddetta da luogo ideale di produzione del pensiero a prodotto di consumo. Con tutti i tratti dei prodotti di consumo, tra cui la volatilità soggetta alle mode, la passività dell’utente, lo scarso stimolo intellettuale.
Lo confesso: ho una forte idiosincrasia nei confronti dei laureati dai Dams, e occupandomi di cultura e spettacolo sono stato obbligato a conoscerne tanti. Faccio un esempio: al festival di Venezia il pubblico dominante sono loro, e ridono quando c’è da piangere e viceversa, battono le mani quando c’è da fischiare e viceversa. Schiavi delle ultime mode, hanno gusti “barbarici” che non vanno oltre la superficie del vistoso e del finto-nuovo. Una sottocultura imbarazzante e deprimente, di cui ritengo sia responsabile un ceto pedagogico che ha semplicemente sostituito alle pedanteria dei vecchi professori di estetica una involuta ma “artistica” allegria cresciuta su se stessa, figlia di quei teorici dei Settanta che esaltavano il nuovo e si avvoltolavano fuori sincrono nelle proprie chiacchiere. Un copiacciaticcio imbarazzante che riscosse il massimo successo sulle pagine dei giornali letti dagli intellettualini ahimé “di sinistra”. Ahiloro, le mode passano, e il nuovo si fa vecchio in un lampo, e i guru di allora sembrano dei personaggi preistorici. D’accordo, il mondo ha girato in un’altra direzione, ma se il mondo li ha fregati loro hanno dato un bel contributo a fregare (senza sforzo) tanti altri. Su questo, nessun’autocritica mai, nessun ripensamento, nessun convegno che prenda di petto le cose e rifletta su ieri oggi domani, nessun libro-inchiesta dei tanti giornalisti che saltano su tutto. Ci si dovrebbe guardare in faccia, e non sarebbe una bella vista.
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Fofi si ferma prima di fare i nomi dei responsabili di tanta catastrofe (anche se nella prima parte dell’articolo Umberto Eco è citato), e secondo la prima risposta pubblicata dall’Unità ci sono dei solidi fastidi personali dietro il suo sfogo (se sia nato prima il Dams o il fastidio di Fofi, è il dilemma). È la risposta di Renato Barilli, altro critico di letteratura e arte, bolognese, di due anni più anziano di Fofi e docente del Dams da sempre.
Le ragioni di fondo che hanno ispirato questo corso sono validissime, e dovrebbero essere assunte dall’intero sistema scolastico nostrano, nei settori umanistici. Era il tentativo di correggere il tradizionale e pesante primato assegnato alle «lettere» di cui si fregiano ancor oggi le Facoltà dei nostri Atenei, accordando ben poco spazio alle forme espressive non-verbali, e appunto nella sigla di quel corso di laurea si manifestava una volontà di riscatto, “A” stava per arti visive, “M” per musica e “S” per spettacolo, poi subito articolato in teatro e cinema.
Oltre all’introduzione di queste aree, trascurate in genere dalla nostra scuola, malgrado il fatto che la cultura italiana vi abbia incontrato nei secoli, e continui a trovarvi ancor oggi, i suoi maggiori successi, agiva anche l’intento di acquisire metodi avanzati, dalla fenomenologia di cui io stesso sono esponente, alla semiotica di Eco, e in seguito di Paolo Fabbri. Fu subito un successo da parte dei giovani, e anche delle autorità accademiche, infatti altri Atenei avrebbero voluto acquisire subito quello strumento, se il suo fondatore, Benedetto Marzullo, molto influente presso gli organi ministeriali, non ne avesse impedito la proliferazione, che poi è avvenuta quando, dal 2000 in poi, c’è stata una liberalizzazione nei regolamenti, e ora il Dams o sue varianti sono presenti ovunque.
In parallelo a questo vivo successo di iscritti, che pochi anni fa ha condotto, nella sede bolognese, a un picco di 1200 immatricolazioni all’anno, è nata l’accusa che un tale corso fosse una fabbrica di disoccupati, ma le statistiche lo smentiscono, i disoccupati si trovano piuttosto tra i normali laureati in lettere, per i quali si danno solo i magri sbocchi dell’insegnamento medio, mentre il damsiani rispondono in parte allo scopo per cui sono stati concepiti, trovano posto, per esempio, nelle emittenti televisive, o in biblioteche e centri civici e uffici promozionali di mostre. Investono cioè una vasta fetta di mercato del lavoro che prescinde dalle solite possibilità della scuola, anche se evidentemente le prospettive al giorno d’oggi sono magre in ogni ambito.
Barilli insomma non contraddice Fofi sul suo stesso terreno, quello del fallimento del progetto “culturale”, ma rivendica al Dams il ruolo di “fabbrica di professioni”, ruolo che soddisferebbe con successo.
In ogni caso, il laureato triennale Dams trova più facilmente di tanti altri una possibilità di assunzione nelle varie attività del mondo della comunicazione e dello spettacolo nel cui svolgimento, a quanto pare, irrita tanto Fofi, ma è un bene e un conforto apprendere che comunque egli incontra questo oppositore potenziale sul suo cammino, e ne è irritato.
Altre obiezioni a Fofi sono arrivate in rete. Qui ne ha scritto Marco De Marinis, professore al Dams, sul sito Culture Teatrali. Barbara Gozzi è intervenuta su AgoraVox. E Antonio Panariello, ex studente del Dams, ha scritto in una lettera al Post cose simili a quelle dette da Barilli:
Ammetto che Fofi è stato decisamente il primo a urlare una verità che mi riguarda da vicino. Sulla questione del bluff, gracchio da una vita prima che il mio uditorio giri la testa lentamente come una vacca, ruminando un sincero chissenefrega.
E fin qui ci siamo. Ma poi arriva lui, e vado in tilt. Il peso s’aggrava con le sue parole: sottocultura, gusti barbarici, ridono quando c’è da piangere e viceversa. Cioè. Scusate…
All’Università, qualche pazzerello c’era. Quelli che giocavano a pallette o fumavano allegramente una canna nel cortile erano ovunque, da Lettere a Ingegneria. Una volta m’è capitata una che sembrava Ruggero di “Un sacco bello” e che ripeteva solo “sono un’artista qua. Sono un’artista là”.
Ma forse l’unico punto in cui il Dams è stato pienamente sincero con me, con noi, è stato quando ci ha detto “Noi vi diamo gli strumenti per non fermarvi qui, ma andare oltre. E se poi avete qualche dono che viene dal cielo, magari con una laurea simile potete anche sperare di arrivare da qualche parte”. (Oddio, forse non erano proprio queste le parole. Ma posso assicurarti che era esattamente un messaggio implicito e inoppugnabile. Se le cose non ci piacevano, potevamo sempre tentare con la Silvio D’Amico o col Centro Sperimentale.)
Comunque, messaggio recepito: abbiamo studiato e la vita ci ha travolti appena usciti da quella porta. Poveri noi.
E adesso che penso di essere un “cash cow” se non una “star”, arriva Fofi e mi dà del “dog”. (ho studiato un po’ di Marketing, si vede?)
Fofi è quel che definisco un dinosauro, a questo punto. Ha speso parole da vecchio barone che non accetta il cambiamento della cultura.
Altri pareri?