90 miliardi, a portata di mano
Secondo la Stampa una montagna di burocrazia in Italia blocca denaro già stanziato e disponibile
La Stampa di oggi pubblica un articolo di Marco Alfieri che comincia con un’ovvietà – “Con 90 miliardi di euro si possono fare tantissime cose” – e prosegue invece con una tesi molto meno ovvia: che questi 90 miliardi di euro sarebbero a portata di mano, dietro l’angolo, solo “sepolti sotto una montagna di burocrazia”.
La tesi va presa con le molle ma è ben descritta e vale la pena di analizzarla, non fosse altro perché se si recuperasse anche solo una minima parte di questa cifra si potrebbe rendere più lieve l’entità dei sacrifici richiesti dall’attuale situazione economica in termini di tagli al welfare, alla scuola, agli investimenti in innovazione e ricerca. Alfieri chiarisce che nel computo di questi 90 miliardi non rientrano né i progetti sulla carta, né generiche riduzioni degli sprechi o dell’evasione fiscale, né i fondi comunitari per le infrastrutture.
Nella somma si tiene conto esclusivamente (e per difetto) di investimenti regolarmente stanziati, di risorse pronte da erogare e di pagamenti per prestazioni già fornite. Insomma soldi incagliati, nessun extracosto per l’erario, da gettare urgentemente nel circuito di una economia asfittica, dove le imprese scappano da tasse e burocrazia, e il massimo di riformismo ai tempi della crisi è di aver messo più risorse sugli ammortizzatori sociali (e sempre meno sugli investimenti).
Dettagli, quindi: Enel ha investito 1,2 miliardi di euro per la riconversione a carbone della centrale termoelettrica Policombustibile di Rossano Calabro. Bloccati dalla burocrazia, e così anche 400 nuovi posti di lavoro. Terna ha due miliardi di investimenti bloccati per nove grandi elettrodotti. Andiamo avanti.
Nel settore petrolifero, un recente paper di Assomineraria mette in fila ben 57 «progetti cantierabili arenati per difficoltà autorizzative», per un valore di 5 miliardi e un impatto occupazionale di 35 mila addetti/anno per la sola costruzione degli impianti. Di questi progetti 30 sono di Eni.
Un’altra voce è composta dai ritardi di pagamento. Si parla di prestazioni già effettuate, solo da essere saldate: e la maggior parte di questi crediti sono vantati proprio nei confronti dello Stato, a rappresentare la fetta più alta di questi novanta miliardi. Settanta miliardi infatti sono i crediti verso la Pubblica amministrazione, di cui 40 in carico alle ASL. Sono soldi che le imprese italiane aspettano da anni per pagare lavori già effettuati: poi va a finire che chiudono, come sappiamo. Però probabilmente è errato definirlo “denaro disponibile”: se non viene versato è perché i comuni non ce l’hanno.
Una stretta che genera penuria di liquidità e costi finanziari insostenibili per le Pmi. Quattro-cinque mesi di ritardo vogliono dire un terzo di interessi passivi in più, spingono a interrompere forniture, riducendo giro di affari e personale in un Paese in cui il 13,2% delle imprese è a rischio insolvenza.
Ultimo capitolo, i cantieri bloccati. L’altra faccia del collasso finanziario degli enti locali, infatti, è fatta di denaro stanziato, bloccato e mai investito per vincoli formali e burocratici.
A fine 2007, infatti, ammontavano a 44 miliardi i residui passivi in conto capitale dei Comuni italiani, di cui un terzo (15 miliardi) immediatamente spendibili per opere di viabilità e trasporti, manutenzione del territorio ed edilizia scolastica. In realtà di questa massa 10 miliardi vanno computati nei ritardi di pagamento per opere già svolte, ma 5 sono pronta cassa per nuove opere pubbliche che il patto attuale impedisce. A loro volta le province italiane hanno in pancia 3,6 miliardi subito cantierabili. A cui va aggiunta una quota di risorse Cipe per le piccole opere: 3,4 miliardi di cui 1,5 già assegnati. Solo in teoria però, perché finora appena 30 milioni si sono trasformati in cantieri (edilizia scolastica in Abruzzo). Tutto il resto è fermo ai box causa burocrazia.