L’industria dei rapimenti
I sequestri di persona in giro per il mondo sono diventati un gran business, con un notevole indotto
La settimana scorsa la cooperante britannica Linda Norgrove è rimasta uccisa in Afghanistan, durante i tentativi delle forze della NATO di liberarla dal luogo in cui un gruppo militante l’aveva sequestrata. Lo scorso settembre, otto turisti sono morti dopo essere stati sequestrati a Manila. In agosto tre aviatori russi sono stati rapiti in Darfur. A luglio quattro giornalisti sono stati rapiti in Messico. A giugno è stata rapita la figlia di un uomo d’affari russo, a maggio alcuni tecnici cinesi in Nigeria, in aprile otto operatori della Croce Rossa in Congo, a marzo un regista britannico in Pakistan, a febbraio quattro cooperanti pakistani, a gennaio un agente di sicurezza privata in Iraq.
L’elenco è infinito ed è fatto dall’Independent di oggi, che racconta quello che definisce “il business dei sequestri”: un settore d’affari che non conosce crisi e soprattutto non conosce confini territoriali o culturali. Perché i sequestri siano un gran business è evidente se si dà un’occhiata a quelli che potremmo definire “finiti bene”, senza la morte degli ostaggi. Una nave sequestrata in Somalia è stata restituita grazie al pagamento di un riscatto pari a sette milioni di dollari. Per la liberazione della moglie di un banchiere tedesco sono stati chiesti 550 mila dollari, 300 mila per l’operaio di una compagnia petrolifera, 10 mila dollari per un commerciante. Poi ci sono i riscatti di cui non si sa nulla, pagati da governi o compagnie assicurative. “Insomma”, scrive l’Independent, “se sei un rapitore, il 2010 per te è stato probabilmente un anno di grandi profitti”. Molti dei dettagli proposti dall’inchiesta dell’Independent sono frutto dell’imponente lavoro di indagine e raccolta di informazioni in giro per il mondo da parte di Anthony Grey, un giornalista della Reuters che è stato tenuto in ostaggio in Cina per oltre due anni negli anni Sessanta.
Da Città del Messico a Mogadiscio, da Mosul a Manila, il numero di cooperanti, occidentali, turisti e indigenti presi in ostaggio non fa che crescere. In Messico soltanto nel 2008 sono state rapite più di sette mila persone. In Nigeria viene rapito almeno un migliaio di persone ogni anno. In Somalia vengono rapiti 106 stranieri ogni mese. Mettendole tutte insieme, sappiamo che quest’anno 12 mila persone sono state rapite. Duemila persone passeranno questo weekend in qualche prigione sconosciuta, senza sapere se saranno liberati o se invece non valgono più abbastanza, e quindi saranno uccisi. La cifra non comprende le migliaia di bambini rapiti da uno dei due genitori a seguito di liti coniugali, e nemmeno le migliaia di donne rapite dai propri mariti, ai quali sono date in spose contro la loro volontà e dietro la minaccia di violenza.
I guadagni sono enormi e crescenti. La polizia nigeriana ha stimato che i riscatti pagati soltanto in Nigeria tra il 2006 e il 2008 superino i cento milioni di dollari. Al Qaida guadagna milioni soltanto con i rapimenti nell’Africa occidentale. Quella che una volta era un’attività limitata a piccoli gruppi di guerriglia, magari di ispirazione politica, è diventato un business internazionale. E quindi è nato anche un business di natura opposta: l’industria delle agenzie assicurative che offrono polizze contro i rapimenti, gli strapagati negoziatori, gli avvocati, il personale di sicurezza privata. Un mercato da un miliardo di dollari l’anno.
A lungo il problema dei sequestri è stato considerato prevalentemente un problema del Sudamerica: fino al 2004, il 65 per cento dei rapimenti di tutto il mondo avvenivano lì. L’anno scorso il dato è sceso fino al 37 per cento, e non perché ci sono stati meno sequestri in Sudamerica, bensì per l’esplosione dei rapimenti nel resto del mondo: nelle Filippine, in Afghanistan, in Nigeria, nel golfo di Guinea, in Messico. In Sudan c’è quasi un rapimento al giorno, e il tasso aumenta da quando nel 2009 il governo ha espulso dal paese le ong.
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Quello che cambia da paese ha paese è come gli ostaggi vengono trattati. Gli ostaggi messicano non sono trattati affatto bene: quando i rapitori vogliono tirare su il prezzo, tagliano loro una mano o un piede. Se non funziona, li ammazzano e basta. In Nigeria, invece, di solito agli ostaggi non viene torto un capello: e anzi si racconta di alcuni casi in cui gli ostaggi sono stati accompagnati in un fast food a mangiare un hamburger. In Afghanistan e in Iraq i sequestri sono principalmente una fonte di finanziamenti. In Nigeria la battaglia ruota attorno alle compagnie petrolifere, ricattate e perennemente in guerra con i gruppi militanti del Delta del Niger.
I casi peggiori sono quelli in cui i sequestratori sono nervosi o impazienti di avere subito quello che chiedono. L’anno scorso a Baghdad un ragazzo è stato ucciso perché suo padre non è stato in grado di raccogliere 100 mila dollari in 48 ore. Poi c’è stata Maria Boegerl, la moglie di un banchiere tedesco. Suo marito ha lasciato 550 mila dollari in una borsa nel posto che gli era stato indicato dai rapitori, che però non la trovarono e uccisero la donna. Si scoprì poi che la borsa era stata trovata e gettata nei rifiuti dalla nettezza urbana.
Per quanto neghino sempre, anche i governi spesso non sono affatto contrari al pagamento dei riscatti. Lo scorso agosto il governo spagnolo è stato duramente criticato e accusato di aver pagato un riscatto ad Al Qaida per ottenere il rilascio di due cooperanti spagnoli sequestrati in Mauritania. Il quotidiano El Mundo ha parlato di un riscatto di sette milioni di euro, il governo ha negato. Le stesse voci – provate, ma mai ufficialmente confermate – negli scorsi anni hanno riguardato la Germania, la Francia e la stessa Italia.
Ovviamente le cose vanno più spedite se ci si affida a un’industria privata. L’Independent ha intervistato John Chase, un negoziatore esperto in rapimenti e riscatti. E Chase sostiene che non c’è rapimento che i soldi non possano risolvere. “Ogni singolo caso può risolversi bene grazie ai soldi, anche quelli che iniziano con richieste politiche. Poi ovviamente ci sono anche molti altri fattori, ma ogni ostaggio ha il suo prezzo”. E i prezzi, anche quelli dei riscatti, dipendono dal mercato. I pirati in Somalia chiedevano un milione e mezzo di dollari, fino a poco tempo fa. Oggi sono almeno tre. C’è tutto un indotto, poi: alcune compagnie di voli charter in Kenya organizzano voli turistici per i safari e consegna di denaro a gruppi di sequestratori, prendendo 250 mila dollari per viaggio.
Ovviamente è tutto un giro: la domanda alimenta l’offerta che alimenta la domanda e via dicendo. Le somme di denaro che circolano nel settore attirano nuovi interessi e nuovo denaro, fanno aumentare i rapimenti, fanno nascere più agenzie specializzate nella loro risoluzione. Il tutto in un atteggiamento internazionale quasi di diffidenza. Se infatti esistono organismi mondiali per qualsiasi cosa, spiega l’Independent, dalle malattie meno incisive agli sport più assurdi, non esiste un organismo internazionale ufficialmente preposto al monitoraggio e allo studio e magari anche all’intervento diretto nei sequestri di persona. Terry Waite è un cittadino britannico, anche lui ex ostaggio. Ha detto così all’Independent.
“I sequestri di persona spesso accadono per ragioni politiche. Proprio per questo in vari casi sarebbe utile mettere i negoziati nelle mani di un organismo indipendente, sotto l’egida dell’ONU o della Croce Rossa, piuttosto che in quelle di agenzie private o governi nazionali”