Metter su casa a New York
Esce oggi per Guanda «Una casa a New York», il nuovo libro di Adam Gopnik del New Yorker
di Adam Gopnik
Nell’autunno del 2000, appena tornato da Parigi – avevo ancora nelle orecchie la musica delle sue strade e nelle tasche i bigliettini con i codici d’ingresso ai suoi cortili – andai downtown a Manhattan e conobbi un uomo che stava disegnando una mappa perfetta di New York. Lavorava per il municipio e, a partire da un insieme di fotografi e aeree e di diagrammi della metropolitana, aveva trasformato ogni isolato, ogni strada e ogni riparo – tutto quanto, in ognuno dei cinque boroughs di New York! – in altrettante figure geometriche ben disegnate, dai colori brillanti, disseminate su un reticolo di quadrati.
Gli edifici in rosso, le strade in azzurro, gli spazi aperti in bianco, i tunnel della metropolitana tracciati come linee punteggiate… tutto quel che c’è a New York era sulla sua mappa: ogni rampa d’ingresso alla Major Deegan Expressway e, nel Bronx, ogni singolo edificio abbandonato con la facciata in arenaria rossa. L’inghippo era che quella mappa, con tutta la sua maniacale perfezione, non era finita, né avrebbe mai potuto esserlo, perché la città che descriveva era troppo « dinamica » e cambiava ogni giorno rendendo obsoleto il disegno appena ultimato. Quando tutto aveva trovato il suo posto – i tunnel della metropolitana allineati con le strade in superficie, i condotti per le tubature della Con Ed con i tunnel della metropolitana, tutto il resto con gli edifici soprastanti – arrivava sempre qualcuno con la scoraggiante notizia: qualcosa era cambiato, e immancabilmente di parecchio. E così ogni volta che aveva quasi finito, l’uomo doveva ricominciare tutto daccapo.
Conservo un piccolo settore di quella mappa nel mio studio, mi serve da promemoria per ricordare alcune verità su New York: la prima è che una mappa reale della città richiama alla mente quella personale e interiore che noi ci siamo fatti di essa.
A New York non è possibile alcun tipo di vita se non ci si forma mentalmente una rappresentazione privata della città – e queste mappe interiori, come scrisse Roger Angell, sono sempre dettagliate, sempre suddivise in quadrati locali, e sempre incompiute. Alla fine, la mappa privata risulta provvisoria come quella pubblica: non qualcosa su cui i nostri passi e le nostre esperienze traccino solchi sempre più profondi con il passare degli anni; piuttosto, qualcosa su cui nessun passo – nulla – sembra lasciare traccia alcuna. La mappa di soli cinque anni fa già non corrisponde più alla città che conosciamo oggi, e tutte le New York che ci erano note in tempi più remoti sono ormai completamente sepolte. La prima New York che ho conosciuto bene, il mondo artistico della Soho di vent’anni fa, oggi è svanita non meno di quanto lo sia Cartagine; la New York dove io e mia moglie ci accingemmo a metter su la nostra prima casa – la vecchia Yorkville dei ristoranti tedeschi e delle famiglie originarie dell’Europa dell’Est, con quella loro aria malaticcia – è ancora più sommersa, una specie di Atlantide; la New York delle nostre più antiche amicizie, poi, quella in cui la luce veniva dal fiume, e la gente portava il cappello e nelle notti torride dormiva a Central Park, non solo è perduta, ma ormai è essenzialmente assimilata alla fiction: è Narnia. New York è una città da camere in affitto, una città dalle molte mappe: noi continuiamo a ridisegnarle e, consapevoli o no, proviamo un senso di gratitudine se, rispetto all’ultimo rilevamento, riusciamo ancora a trovare, affi orante dall’acqua, un’unica isola che ci sia familiare.
Capii tutto questo – o perlomeno ne ebbi una parziale percezione – la prima volta che vidi la città. Fu nel 1959, quando i miei genitori, studenti della Penn di Filadelfia amanti dell’arte, portarono qui me e mia sorella per l’inaugurazione del Guggenheim Museum. La mia famiglia era passata da New York cinquant’anni prima, diretta proprio a Filadelfia. Mio nonno, come ogni altro immigrante, arrivò negli Stati Uniti da Ellis Island, con ancora – questa è la leggenda che si racconta nella nostra famiglia – il suo nome russo di bambino, « Lucie »: credo si trattasse di una forma « russizzata » dello yiddish «Louis », il nome di suo padre. Il funzionario dell’ufficio immigrazione spiegò con modi fermi e bruschi ma in fondo caritatevoli – così me lo sono sempre figurato – che in questo paese non si può chiamare un bambino « Lucy ». « E come lo chiameremo, allora? » domandarono i genitori sconcertati e sfiniti. Il funzionario si guardò intorno nel grande locale e ne trasse una rapida conclusione: «Chiamatelo ’Ellis’» disse; e infatti mio nonno visse e morì come Ellis Gopnik, in onore di Ellis Island; ma poiché a Filadelfia «Ellis» faceva un po’ troppo New York, in realtà Lucie-Ellis fu noto a tutti, in vita e in morte, come Al. In occasione della visita al Guggenheim, mia madre aveva cucito per me e mia sorella un abito e un vestitino, usando del velluto color senape; ci mettemmo in fila fuori dall’edificio a cavatappi, cercando di ricordare quello che ci avevano insegnato di Calder. Poi uscimmo da quello straordinario museo percorrendo la rampa e passeggiammo lungo la Quinta Avenue, dove vedemmo una Rolls-Royce. Cenammo in un ristorante che serviva un esotico quanto emozionante miscuglio di blintz e insulti, e quella sera dormimmo nell’appartamento della mia prozia Hannah, all’incrocio fra Riverside Drive e la Centoquindicesima. Una giornata perfetta.
Ricordo che guardai fuori dalla finestra della piccola camera di servizio in cui ci eravamo sistemati, vidi le luci di Palisades dalla parte opposta, e pensai, Ecco, Eccola là! Ecco New York, questa città meravigliosa. Un giorno andrò a viverci. Perfino trovandomi davvero a New York – nel luogo reale – reputavo così meravigliosa l’idea di questa città da non poter fare a meno di immaginarmela come un altro posto, ben più grande di qualsiasi luogo reale potesse accogliermi a dormire, remota costellazione di luci che ancora non mi era permesso di visitare. Ero arrivato nel regno di Oz solo per pensare, Be’, ma tu mica ci abiti a Oz, giusto? Da allora, New York è esistita per me simultaneamente come una mappa da studiare e un luogo a cui aspirare – una città di cose e una città di simboli, il luogo in cui mi trovo realmente e il luogo in cui vorrei essere anche quando effettivamente ci sono già. Da bambino, capivo che il profilo della città stagliato contro il cielo era un simbolo che, per così dire, avrebbe potuto essere ricollocato nel New Jersey: una sorta di Visione astratta, che si ritraeva da chi la contemplava e avrebbe sempre significato «irraggiungibile»: non qualcosa di concreto che indicasse «oh, fi nalmente: eccoti qua».
Perfino quando ci stabiliamo qui a New York, in qualche modo questa città sembra sempre un luogo a cui aspirare. La sua vita – le strade, gli hot dog e i modi bruschi – è una cosa; ma i suoi simboli – le luci dall’altra parte, il richiamo del profilo disegnato sullo sfondo del cielo – sono qualcosa di diverso. Perfino quando l’esasperazione è al massimo, lasciamo che continuino a ispirarci. Se l’energia di New York è l’energia di chi aspira a qualcosa – fammi entrare! – lo spirito di New York è davvero quello delle camere in affitto: vedrò di adattarmi a questa sistemazione. D’altra parte, le mappe della città sono influenzate da entrambe le cose – aspirazione e capacità di arrangiarsi – giacché entrambe condividono la qualità del divenire, del non essere stabili in un luogo, dell’essere incompiute sotto tutti i punti di vista. Un’aspirazione potrebbe un giorno realizzarsi; una sistemazione un giorno sarà sostituita da un’altra. La visione romantica – un giorno andremo nella città di là dal fiume! – finisce per armonizzarsi con l’abbraccio, che romantico non è, della realtà: svuoteremo quel ripostiglio.
A New York, sottoposti allo stress della vita quotidiana, perfino i monumenti possono scomparire dalla nostra mappa mentale. In questi giorni, se mi va, posso fare quattro passi fino al Guggenheim, che tuttavia per me è diventato semplicemente un luogo dove andare quando i piccoli ristoranti alla buona sono troppo affollati, un Three Guys [Ristorante in Madison Avenue, vicino a Central Park, N.d.T.] a forma di cavatappi, un luogo alternativo dove farmi un cappuccino e una scodella di zuppa di legumi. Ma un altro giorno, svoltando l’angolo, riscopro il vecchio monumento con lo stesso aspetto che aveva la prima volta che lo vidi: la sorprendente ziggurat bianca costruita in un isolato cittadino, lo spettacolo che vale una visita.
Questa duplicità ha il suo fascino, ma anche il suo carico di frustrazioni. A New York, lo iato fra ciò che desideri e quello che hai crea un’inquietudine civica: non conosco un solo newyorkese soddisfatto. L’autocompiacimento e la soddisfazione di sé – i vizi dei parigini – qui non esistono, salvo che nella forma di vuota competizione con cui i newyorkesi si vantano della sfortuna. (Perfino la gente molto ricca vuole un’altra bella casa ma poi trasloca in un appartamento, mentre nella classe dei creativi c’è un segmento esclusivo dedito a inventare cose a cui i superricchi possano aspirare, in modo che non siano gli unici a restare a corto di desideri.)
Da bambino trascorsi molti sabati a New York – ci tornavo a riempirmi gli occhi d’arte e lo stomaco di delicatessen – e per me questa città non era soltanto il Grande Luogo Romantico, ma l’ovvio motore del mondo del lavoro. Poi, dopo una lunga lontananza, ci tornai nel 1978 con la ragazza che amavo. Passammo un giorno straordinario: Bloomingdale’s, MoMA, cena da Windows on the World, e poi alla Carnegie Tavern, ad ascoltare il jazzista afroamericano Ellis Larkins – l’impareggiabile poeta – al pianoforte: solo lui e noi due, in una sala fredda e quasi vuota. (A distanza di venticinque anni, non ho ancora avuto un’altra giornata così).
Eravamo abbagliati dai viali e incantati dalla guglia del Chrysler Building e decidemmo che, in un modo o nell’altro, avremmo dovuto arrivarci. Sebbene in quegli anni l’antico pellegrinaggio a Manhattan del giovane con aspirazioni letterarie fosse diventato un poco donchisciottesco, decidemmo comunque di farlo: non perché attirati romanticamente dalla città come lo fummo in seguito dall’idea di Parigi, ma spinti verso di essa quasi in preda a una febbre o, se preferite, a un delirio; come se fosse stato il luogo di cui dovevamo essere, anche solo per poter avanzare la pretesa di essere.
Questa impressione non mi ha mai lasciato. Ho vissuto altrove, ma nessun altro luogo trasmette in modo così totale e illusorio la sensazione di casa: più per la gamma completa di energie emotive che possiede che non per le comodità che offre. Una casa a New York! Ma come faremo? L’esclamativo della speranza è immediatamente seguito dall’interrogativo disperato, la domanda impossibile. L’idea di una casa a Manhattan sembra al tempo stesso ovvia e tuttavia non priva d’una certa assurdità, in qualche modo vicina a una contraddizione di termini, i suoi termini incerti: così che esprimerla, anche sottovoce, è come sfidare un senso del decoro interiore, se non del tutto concreto, almeno letterario. In fondo, nella letteratura New York è il luogo in cui facciamo carriera, conduciamo negoziati, scendiamo a compromessi e avanziamo in mezzo a fallimenti, nuovi esordi e svolte di vita, buone o cattive che siano. In realtà, però, quel che tutti facciamo a Manhattan è proprio metter su casa (tranne ovviamente gli sfortunati che non lo fanno, o non possono farlo, e rappresentano un forte monito per noialtri che ci riusciamo). A New York, la grande unità di misura è la Vita, quella in stile Trump; ma la vera misura, l’unica che conosciamo (in fondo, anche tutto quello che conosciamo) è la casa, l’appartamento con la cucina attrezzata su un’unica parete e i corridoi invasi dagli effluvi di cibo. La gente mette su casa a New York né più né meno che in qualsiasi altro posto. Qui, la parte complicata e difficile – e al tempo stesso anche la più ovvia – sta proprio nel metter su casa in sé. Milioni di altre persone lo stanno facendo. Basta guardare fuori dalla finestra.
«Fatti New York!» Così Henry James esortava la sua collega più giovane Edith Wharton in una famosa lettera – intendendo, abbracciala, se puoi – ma quando proviamo a farci New York, è lei a farsi noi e a rispedirci barcollanti a casa.
(Quando il grande James provò a tornare a New York con quell’idea, in realtà ciò che si fece fu la casa dove era nato, sulla Quattordicesima, e le altre dietro l’angolo, sulla Sesta.) Ricordo ancora i nostri primi tentativi di metter su casa, quando mia moglie e io arrivammo in autobus dal Canada e ci sistemammo in un monolocale seminterrato tre metri per quattro (scarsi) sull’Ottantasettesima Est. Esattamente a un quarto di secolo di distanza, lo ricordo provando qualcosa che si avvicina all’incredulità: come facemmo a infilare tutti quei tasselli in tre muri soltanto? E tuttavia, non è che farlo una seconda volta sembri più semplice o più agevole; non riesco a entrare in un magazzino di ferramenta, a Manhattan, senza sentirmi vittima di un complicato gioco di fiducia, una specie di cinico adescamento. Ma davvero useremo un tostapane e una caffettiera tutte le mattine? Poi, naturalmente, certo che lo facciamo: proprio come lo fanno ad Altoona, proprio come lo facevamo anche noi prima… a casa.
Per metter su casa a New York, innanzitutto dobbiamo trovare un luogo in cui farlo sulla mappa della città. Già la mappa, da sola, ci impartisce qualche lezione sul tipo di casa possibile. La nostra prima casa a New York, per esempio, era in uno di quei piccolissimi appartamenti seminterrati disseminati uno dietro l’altro lungo la Prima Avenue. Poi ci fu Soho nella sua Età d’Argento, quando il banco dei formaggi da Dean & DeLuca e l’arte in mostra alla Mary Boone cospiravano a convincerti che fosse in corso un Momento Culturale. Ma quell’epoca è passata – un mondo intero se n’è andato, proprio come fanno tutti, qui – e adesso, tornando a casa, speravamo di approdare in uno dei quadrati più struggenti della mappa, quello dei bambini.
Tornammo a New York nel 2000, dopo anni di lontananza, per varcare il Children’s Gate e metter su casa qui, una volta per tutte. Il Children’s Gate – il cancello dei bambini – esiste sul serio, ed è davvero possibile varcarlo. È l’ingresso di Central Park che si trova all’incrocio fra la Settantaseiesima Strada e la Quinta Avenue. I nomi dei cancelli del parco – poco più che aperture nel basso muro di pietra che lo delimita – sono fra i suoi monumenti più poetici e al tempo stesso meno noti.
Momentaneamente colti da un curioso capriccio ruskiniano, gli architetti Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux diedero un nome a tutti gli ingressi di Central Park, facendo in modo che ogni classe di persone avesse la sua entrata; un parco per tutti, con entrate per ogni categoria. C’era, e c’è tuttora, un Miners’ Gate, il cancello dei minatori, e uno Scholars’ Gate, il cancello degli studiosi e – per lungo tempo il mio preferito – lo Strangers’ Gate, il cancello degli stranieri, che si apre a nord, sul versante occidentale del parco. Il Children’s Gate è uno dei meno noti, sebbene sia il più invitante di tutti. Molto spesso non si riesce nemmeno a leggere il suo nome, perché per dodici ore al giorno un venditore di hot dog e di brezeln parcheggia il suo carretto e la sua malinconia proprio di fronte al punto in cui il nome è inciso sulla pietra. È un peccato. Infatti, sebbene sia passato molto tempo da quando l’ultimo minatore entrò in Central Park attraverso il suo cancello, i bambini effettivamente continuano a entrare e uscire dal loro – ed essendo bambini, sarebbero felici di saperlo. In un certo senso, anche la mia famiglia aveva deciso di varcare il Children’s Gate, come i bambini.
Questo era vero sia letteralmente – ci piaceva il campo giochi e ci andammo durante la nostra prima mattina newyorkese tormentata dal jetlag – sia metaforicamente: avevamo deciso di lasciare Parigi per New York spinti dalla poesia dell’infanzia, per il bene dei bambini. Non volevamo che andassero nelle frustranti scuole parigine – dove avrebbero ricevuto un’educazione fantastica, ma sarebbero stati intimiditi dall’autorità fino a diciassette anni e avrebbero cominciato a ribellarsi solo in seguito – ma in una scuola progressista di New York, nella quale avrebbero ricevuto un’educazione fantastica ma nel frattempo, speravamo noi, si sarebbero anche divertiti.
L’infanzia sembrava troppo breve per sprecarla in preparativi. E noi volevamo che crescessero a New York, che fossero indigeni di questa città in un modo che a noi sarà sempre precluso: volevamo che entrassero varcando il cancello dei bambini, e non quello degli stranieri.
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Con questo racconto inizia Una casa a New York di Adam Gopnik, scrittore, saggista e commentatore americano. Il libro esce oggi in Italia pubblicato da Guanda. Nato a Philadelphia, ma cresciuto in Canada, Gopnik è noto come giornalista e autore per il New Yorker.
Ha scritto anche Paris to the Moon, un resoconto dei cinque anni passati a Parigi con la moglie Martha e il figlio Luke.