La guerra degli ex AN sul Secolo d’Italia

Gli ex esponenti di AN si contendono il patrimonio del loro vecchio partito

Il paradosso di questi anni di rimescolamenti politici e partitici è la permanenza in vita di partiti-zombie, superati dagli eventi ma non dalla burocrazia. È il caso della Margherita e dei Democratici di Sinistra, per esempio, ufficialmente sciolti nel 2007 ma che continuano ad avere sedi, dipendenti, organi ufficiali e rimborsi elettorali, in funzione delle elezioni politiche del 2006. Oppure di Forza Italia e Alleanza Nazionale, anch’essi sciolti nel 2008 in seguito alla costituzione del Popolo della Libertà.

Le ragioni per cui questi partiti-zombie vengono tenuti in piedi sono essenzialmente due. La prima è tenere lo spazio occupato: evitare che qualcuno possa intestarsi quegli stessi simboli e nomi, lucrando elettoralmente sulla loro vasta notorietà. È la stessa ragione per cui questi simboli vengono depositati a ogni elezione, per poi non essere utilizzati: per evitare che lo facciano degli altri. La seconda ragione è la più importante: questi partiti sono titolari di veri e propri patrimoni finanziari e immobiliari. Dai rimborsi elettorali alle sedi di partito, ogni anno questi partiti incassano e spendono quantità di denaro non irrisorie: un’attività che va controllata e amministrata. Logicamente, questi patrimoni sarebbero dovuti diventare i patrimoni dei nuovi partiti: DS e Margherita avrebbero dovuto trasferire i loro patrimoni al PD, PdL e AN avrebbero dovuto fare lo stesso nei confronti del PdL. Non è andata così, per reciproche diffidenze e prudenze, e quindi i partiti che non ci sono più in realtà ci sono ancora.

Ci sono ancora e contano, come dimostra quello che sta avvenendo in questi giorni riguardo il patrimonio e le risorse di Alleanza Nazionale. Si parla di 380 milioni di euro in immobili, asset e liquidità. Le risorse vengono amministrate dal comitato dei garanti di AN, composto oggi da esponenti di due diversi partiti: Popolo delle Libertà e Futuro e Libertà. I finiani rivendicano per sé il trenta per cento delle risorse; i cosiddetti ex colonnelli – La Russa, Gasparri, Matteoli, Alemanno – fanno muro. Il presidente del comitato dei garanti è il senatore finiano Francesco Pontone, dimissionario dopo il casino con la casa di Montecarlo. Il suo sostituto dovrebbe essere Giuseppe Valentino, sostenuto dagli ex colonnelli: berlusconiano.

Insomma, la trattativa potrebbe essere serrata e durare a lungo. Oggi i quotidiani si occupano dell’aspetto più urgente di questo contenzioso: il ripianamento dei debiti contratti dal Secolo d’Italia a causa della stretta del governo sul finanziamento pubblico all’editoria. Sono settecento mila euro. Ignazio La Russa ha detto in tv che

“L’anno scorso il quotidiano da An ha avuto qualcosa come 3,6 milioni di euro. Per vivere ha bisogno di costi eccessivi: ritengo che un giornale debba vivere non con gli aiutini ma camminando sulle proprie gambe”

Il dibattito è vecchio e l’argomento potrebbe pure avere una qualche sensatezza, se non fosse che da trent’anni e fino all’altro ieri La Russa era d’accordo a finanziare il Secolo d’Italia con i fondi del partito. Ed è evidente il tentativo di colpire e mettere in difficoltà un quotidiano che da tempo non tratta benissimo né il PdL né tantomeno i cosiddetti ex colonnelli. Commenta così Flavia Perina, direttore del Secolo d’Italia e collaboratrice del Post.

“Da 55 anni, prima l’Msi e poi An ripiana i debiti del Secolo. Questo è un boicottaggio – protesta il direttore Perina – Ricordo ancora La Russa che urlava: “Meglio Libero o il Giornale, dobbiamo fare del Secolo una sorta di Padania, altrimenti meglio aprire una tv”. La verità – continua – è che da quando abbiamo parlato di veline in lista, siamo stati sempre osteggiati, ben prima dello strappo di Fini: hanno dei problemi con le teste pensanti e non condizionabili. È il loro limite”.

All’interno del comitato dei garanti i berlusconiani hanno la maggioranza, con sei membri su nove. Se questi dovessero procedere con i loro combattivi propositi, i finiani potrebbero solo rivolgersi alla magistratura e chiedere il commissariamento dell’intero patrimonio.