L’Italia dopo Berlusconi
Come sarà il Paese quando tutto questo finirà, anzi: quando andrà a finire
di Giuseppe Provenzano
L’Italia, dopo. (L’Italia, Post: ci avevate pensato?). Ci abbiamo pensato tutti, prima di ieri sera, magari un attimo appena, nell’attesa passiva e impotente, nella curiosità disincantata e scandalizzata su come sarebbe andata a finire in Parlamento. Dopo Berlusconi, come sarà l’Italia? Non è finita, è vero, ma va a finire. Questo è un Paese dove le cose spesso non finiscono: vanno a finire. Il pensiero di “come sarà” prende tutti, a sinistra e a destra, sopra e sotto, e più al centro, ovviamente: al centro sono i più curiosi, passano di qua e di là – più di là, ovviamente. In questa attesa del “dopo” sono gli “anni berlusconiani”. Per parte mia, è da mesi che chiamo amici al telefono per dirgli che – fonte sicura – di lì a qualche ora cadrà il governo: così, per vedere l’effetto che fa. (Una volta l’ho scritto pure su Facebook – era primavera, Fini era Fini prima di diventare e rimanere Fini. “Nelle prossime 72 ore, la fonte è sicura, cadrà Berlusconi”: ha fatto un certo effetto). Passavano finanziarie e manovre correttive, crisi economiche e coniugali, escort e intercettazioni, giovani hostess e cavalli berberi, 25 luglio e tutto questo agosto – l’ho fatto molte volte: nessuno mi crede più. Nessuno ci crede più, benché il “dopo” debba sempre arrivare.
La fiducia della Camera di ieri è proporzionale – ma per difetto – alla sfiducia del Paese per domani. Non solo la sfiducia nel Governo che, nel marasma sociale, si estende pericolosamente alle istituzioni e alla politica in generale. La sfiducia nel dopo: vederlo, immaginarlo, determinarlo. Eccoli, gli anni berlusconiani: un futuro che non esiste al di là delle parole – sempre le stesse, sempre quelle da quindici anni in qua. (Bel problema, questo delle parole. Sarà materia da storici, ma la frase che riassume un’epoca, pronunciata con intenti opposti di rabbia e indulgenza, di accusa e di scusa, forse è proprio questa: “sono solo parole…”).
È la Fata Morgana del berlusconismo: nato su una “visione” del futuro, ha tolto ad esso ogni credibilità, rinviandolo sempre un po’, come ieri in Parlamento, volgendo la speranza nella paura di un pericolo costante da scampare – ed ogni rinnovata promessa ha il suono di una minaccia, o di una barzelletta. Certo, come si può pensare al “dopo”, quando l’emergenza è già oggi o solo poco fa? Come pensare al “dopo” quando si è aperta una voragine e il Paese è nella fossa? Metafora rischiosa, questa della voragine. Con le macerie è più facile: i cumuli sono agli angoli, come a L’Aquila, come l’immondizia a Napoli. Forse, a restituirci un’immagine della caduta sarà la maniera di rialzarsi. Come sarà? Come si rialza l’Italia? Ne abbiamo avuto un tragico esempio recente. Per ogni uomo giusto, ammazzato in un Sud che non si stanca di trascinare morti, si aggiorna la lista degli eroi (sventurato Paese); e quanti, durante le esequie di Angelo Vassallo hanno richiamato i nomi di Falcone e Borsellino? A ragione, del resto, ben oltre la retorica – e il fatto che le circostanze e la matrice dell’omicidio di Vassallo siano ancora da chiarire dice poco: anche la strage di via D’Amelio, rimane ancora da chiarire. Eppure, all’indomani delle stragi, in quel lontano 1992 un Parlamento di fine d’epoca seppe reagire, eleggendo un uomo probo alla Presidenza della Repubblica e intensificando gli strumenti normativi di lotta alla mafia; poco fa, all’indomani dell’omicidio di Vassallo (e delle bombe a Reggio Calabria contro i magistrati e di una meravigliosa e insperata manifestazione antimafia), un Parlamento di fine impero vota contro l’autorizzazione per Cosentino, dopo aver a lungo depotenziato nei fatti l’azione antimafia. Nella distanza tra questi due Parlamenti, tra questi modi di rialzarsi alle diverse cadute, sono gli anni berlusconiani.
E allora, cosa poteva accadere ieri in Parlamento? Cos’altro può mai accadere in Parlamento? Tutto quello che non doveva succedere è già successo. Tutto quello che non doveva essere detto è stato già detto (altro che “porci romani”), e tutto quello che doveva essere detto non è stato detto (il silenzio del Premier su Vassallo): un leghista o un berlusconiano, direbbe – vabbè, “sono solo parole”. Cosa poteva accadere ieri in Parlamento, col discorso di Berlusconi? Un altro italiano – uno di quelli che negli ultim dieci anni ha perso il valore del suo salario o il salario stesso o (come la metà dei giovani) persino la possibilità di averlo – avrebbe detto: “solo parole”. Bel problema, questo delle parole. Sono diventati poveri gli italiani e la povertà, del resto, una parola disdicevole: l’unica cosa disdicevole, in un Paese orgoglioso dell’ignoranza, che si specchia nell’illegalità e nella miseria morale delle cricche al potere, nella corte «delle irresoluzioni, della viltà ed, in conseguenza, delle perfidie» (prendo a prestito parole di Vincenzo Cuoco, uno che s’intendeva di rivoluzioni andate male). Così è cambiata l’Italia di questi anni, è mutata in se stessa. E mentre nell’incantesimo berlusconiano si parla come nel 1994 dell’Italia che sarà “prossimamente” – dice così il Premier: prossimamente (sui vostri teleschermi) – tutto questo è stato. E allora, il “come sarà” – fosse anche nella versione (non minore, in verità) del come non dev’essere più – è la nostra urgenza. A partire dalla domanda, indicibile: l’Italia sarà, dopo Berlusconi? (Il berlusconismo, chissà: fra qualche decennio, aggiornati i manuali di storia, magari ci troveremo a parlare delle diverse forme in cui si riproporrà l’«eterno berlusconismo italiano»). Quando sarà, ripercorrendo indietro questi anni, scopriremo un nesso decisivo – sfuggito in parte agli amanti del genere – tra il berlusconismo egemone e le sempre più marcate differenze tra le due (o anche tre) Italie.
A ripensarci, l’unico messaggio nazionale di Berlusconi – che, forse inconsapevolmente, ha garantito il suo successo riuscendo a proporre messaggi e offerte politiche diverse a un’Italia divisa tra Nord e Sud – è stato proprio un’insofferenza nei confronti delle regole e dei doveri, in cui si riconoscevano affaristi privati del Nord e affaristi pubblici del Sud (alcuni dei quali, in Parlamento, li abbiamo visti: sono passati di là). Il Pdl berlusconiano, del resto, ha rivelato nei rantoli l’anima sua: noncuranza per l’illegalità, disprezzo per regole poste a garanzia dell’uguaglianza. È stato ciò che paradossalmente ha tenuto insieme la nazione in questi anni. Un regime, s’è detto. Un regime alla rovescia, semmai.
Quando finirà questa lunga stagione, mappa dei voti in mano, il timore che la profezia di Gianfranco Miglio si possa avverare sarà ancora più forte: un Paese separato, nella versione edulcorata, «Nord alla Lega, Sud agli eredi della DC» (la versione originale e estrema era «Nord alla Lega, Sud alla mafia»), e un’«Italia di mezzo» a fare da cerniera debole, minacciata dall’avanzata dell’una e dell’altra Italia. Alla secessione, chi ci crede? Nemmeno i leghisti, in verità. La debole minaccia della secessione promessa, che s’è inventata popoli reinventando populismi, non deve farci perdere di vista la secessione già avvenuta, che la sempre più accentuata formulazione territoriale della competizione politica finirà di completare – allargando i divari, radicalizzando le disuguaglianze. Una secessione «passiva» avvenuta nell’indifferenza – se non nell’ostilità – delle élites e dell’opinione pubblica verso l’unificazione nazionale che, come colte di sorpresa, ora si trovano quasi costrette a festeggiare. Una separazione reale, eppure impossibile: prima che per i vincoli esterni (l’Europa, eccetera) per un vizio logico interno. Passata l’euforia regionalista, il secessionismo risalirebbe a ritroso alle differenze tra province comuni e quartieri, fino ad arrivare alla differenza tra il condominio dei dentisti e quello degli operai: la disuguaglianza sociale tra ricchi e poveri, vecchi e nuovi, che l’invocazione del territorio riesce a malcelare. La povertà è parola indecorosa, si sa. E forse si potrebbe arrivare a dire che l’ideologia nordista dei territori, in tutti questi anni, è servita a mascherare questa speciale intolleranza: l’intolleranza verso i deboli, sul piano economico e sociale, che ha preceduto di gran lunga quella etnica, reinventandosi in quest’ultima. La povertà è vergognosa, e Tremonti (che, com’è noto, è stato un ragazzo bene educato) lo sa al punto che – con un inedito calvinismo all’italiana – ha sostituito la distinzione tra regioni ricche e povere con quella – decisamente più raffinata – tra regioni virtuose e regioni viziose. Con una facile sovrapposizione: la povertà è un vizio, si sa.
Un appunto: “il vero patriottismo è costruire un futuro per i nostri figli”, ha detto Ed Miliband l’altro ieri. Sappiamo bene come stanno le cose nel nostro Paese, tra le generazioni. Non è questa la peggiore secessione, ampiamente consumata peraltro?
Quando le cose vanno a finire, a un certo punto, possono sempre precipitare. In Italia, non ci si crede mai, ma poi arriva un giorno in cui le cose precipitano, nel bene e nel male della storia di questo Paese. Il Risorgimento, che ora stiamo ripassando, per dire, è fatto di eventi che precipitano, quando quasi nessuno ci crede. Ora che le cose vanno a finire, il Paese, in un modo o in un altro, uscirà dalla fossa in cui è caduto. Ma il mattino dopo, al risveglio da un sonno travagliato, senza nemmeno più il sogno, l’Italia stremata potrebbe trovarsi in balìa del primo che passa per strada. L’ultima volta accadde sedici anni fa. Ora la Fata Morgana muta e svanisce, ma non ci si crede più. Quando le cose vanno a finire, invece, bisognerebbe crederci un poco di più. E farsi trovare per strada, magari.