«La critica della tecnologia non va lasciata ai luddisti»

Esce domani in Italia "Tu non sei un gadget" di Jaron Lanier, che di recente aveva rilanciato un'autocritica sui cambiamenti indotti dalle nuove tecnologie

di Jaron Lanier

Frammenti, non persone

Qualcosa è cominciato ad andare storto nella rivoluzione digitale intorno al passaggio del millennio. Il World Wide Web è stato inondato da una fiumana di tecnologie di pessimo livello talvolta etichettate come Web 2.0. Questa ideologia promuove una libertà radicale, ma paradossalmente si tratta di una libertà riservata più alle macchine che alle persone. Eppure se ne sente parlare come di «cultura open».

Commenti anonimi sui blog, video vacui che cercano di essere spiritosi e mash-up dilettanteschi: cose che possono sembrare solo banali e inoffensive, ma che nel loro insieme, in quanto pratica diffusa di comunicazione frammentaria e impersonale, hanno depauperato l’interazione fra le persone.

La comunicazione, oggi, viene spesso esperita come un fenomeno superumano, torreggiante sopra i singoli. Una nuova generazione ha raggiunto la maggiore età con aspettative ridotte riguardo a quello che una persona può essere, e riguardo a chi ogni persona possa diventare.

La cosa più importante in una tecnologia è come cambia le persone

Quando lavoro su gadget digitali sperimentali in laboratorio, per esempio su variazioni inedite di realtà virtuale, mi torna sempre in mente come piccole modifiche nei dettagli di un progetto digitale possano avere effetti profondi e imprevisti sull’esperienza degli esseri umani che vi giocano. La più lieve delle modifiche in una cosa in apparenza insignificante come la semplicità d’uso di un pulsante può talvolta alterare completamente alcuni modelli di comportamento.

Per esempio, il ricercatore Jeremy Bailenson della Stanford University ha dimostrato che, modificando la statura dell’avatar di una persona in ambiente di realtà virtuale immersiva, si migliorano l’autostima e la percezione sociale di sé. Le tecnologie sono estensioni del nostro io e, come gli avatar nel laboratorio di Jeremy, il minimo dettaglio di un gadget può alterare la nostra identità. È impossibile lavorare con la tecnologia dell’informazione senza occuparsi nello stesso tempo di ingegneria sociale.

Ci si potrebbe domandare: «Se dedico molto tempo ai blog, a twitter e wiki, in che modo ciò modifica quello che sono?», oppure: «Se la “mente alveare” è il mio pubblico, chi sono io?». Noi, inventori di tecnologie digitali, siamo come protagonisti di un monologo o neurochirurghi, in quanto il nostro lavoro ha a che fare con profonde questioni filosofiche; purtroppo, di recente ci siamo dimostrati filosofi scadenti.

Quando gli sviluppatori di tecnologie digitali progettano un programma che vi richiede di interagire con un computer come se fosse una persona, vi stanno chiedendo di accettare, in un angolo riposto del cervello, che a vostra volta potreste essere considerati come se foste un programma. Quando progettano un servizio internet il cui editing è affidato a un’immensa folla anonima, lasciano intendere che un assembramento casuale di esseri umani sia un organismo dotato di un legittimo punto di vista.

Diversi modelli di media stimolano potenzialità diverse nella natura umana. Non dovremmo cercare di rendere il più efficiente possibile la mentalità di branco. Dovremmo, piuttosto, cercare di instillare il fenomeno dell’intelligenza individuale.

«Che cos’è una persona?» Se conoscessi la risposta, sarei in grado di programmare una persona artificiale all’interno di un computer. Ma non la conosco. Essere una persona non si esaurisce in una formula qualunque, è una ricerca, un mistero, un atto di fede.

Ottimismo

Sarebbe dura per chiunque, figuriamoci per un tecnologo, alzarsi al mattino senza nessuna fiducia nel fatto che il futuro può essere migliore del passato.

Negli anni ottanta, quando internet era disponibile solo per un ristretto numero di pionieri, mi trovavo spesso di fronte gente spaventata all’idea che le strane tecnologie su cui lavoravo, come la realtà virtuale, potessero scatenare i demoni della natura umana. Le persone, per esempio, non sarebbero diventate dipendenti dalla realtà virtuale come da una droga? Non vi si sarebbero lasciate intrappolare, incapaci di tornare nel mondo fisico dove viviamo tutti noialtri? Alcune di queste domande erano insulse, altre profetiche.

Come la politica influenza la tecnologia dell’informazione

In quegli anni facevo parte di un’allegra banda di idealisti. Se negli anni ottanta foste venuti a pranzo, per dire, con me e John Perry Barlow, poi cofondatore della Electronic Frontier Foundation, o Kevin Kelly, che avrebbe creato e diretto la rivista «Wired», erano queste le idee di cui ci avreste sentiti discutere. Gli ideali sono importanti nel mondo della tecnologia, ma il meccanismo tramite cui gli ideali influenzano gli eventi qui è diverso che in altri ambiti della realtà. I tecnologi non sanno essere persuasivi nell’esercizio della loro influenza, quantomeno non abbastanza. La categoria annovera alcuni comunicatori di vaglia (come Steve Jobs), ma in genere è assai poco affascinante.

Noi tecnologi escogitiamo estensioni per il vostro essere: occhi e orecchie remoti (webcam e telefoni cellulari) ed espansioni di memoria (il mondo di dettagli ricercabile on line). Queste estensioni diventano le strutture mediante le quali vi connettete al mondo e alle altre persone. Queste strutture, a loro volta, possono cambiare il modo in cui concepite voi stessi e il mondo. Noi armeggiamo con la vostra filosofia manipolando direttamente la vostra esperienza cognitiva, non indirettamente tramite l’argomentazione. Basta un gruppo molto ristretto di ingegneri per creare tecnologia in grado di dar forma, con velocità incredibile, all’intero futuro dell’esperienza umana. Pertanto, prima che tali manipolazioni dirette vengano progettate, fra sviluppatori e utenti dovrebbero aver luogo dibattiti di portata cruciale sulla relazione degli esseri umani con la tecnologia. Di simili dibattiti si occupa questo libro.

Il Web quale lo conosciamo oggi non era affatto scontato. All’inizio degli anni novanta gli sforzi volti a trovare un modello per rendere disponibili le informazioni digitali in rete in modo che fossero più attraenti per il largo pubblico si contavano a decine. Aziende quali general Magic e Xanadu svilupparono tecnologie alternative, dotate di caratteristiche fondamentalmente diverse, che non ebbero mai applicazione.

Il particolare modello di Web che conosciamo oggi è opera di un singolo individuo, Tim Berners-Lee. Quando fu introdotto, il Web era minimalista, in quanto forniva solo indicazioni molto generiche sull’aspetto che avrebbero avuto le pagine. Era anche aperto, perché l’architettura non privilegiava una pagina rispetto a un’altra, e tutte le pagine erano accessibili a tutti. Metteva inoltre l’accento sulla responsabilità, dato che solo il proprietario di un sito web era in grado di garantire che il sito fosse accessibile ai visitatori.

La motivazione iniziale di Berners-Lee era servire la comunità dei fisici, non il mondo intero. Nonostante ciò, il clima nel quale il progetto del Web fu accolto dai primi che lo utilizzarono era influenzato da discussioni di tipo idealistico. Nel periodo precedente la nascita del Web le idee in gioco erano radicalmente ottimistiche e guadagnarono consenso nella comunità, poi si diffusero nel resto del mondo.

Dal momento che quando costruiamo tecnologie legate all’informazione partiamo quasi sempre praticamente da zero, come possiamo stabilire quali siano le migliori? La libertà radicale insita nei sistemi digitali porta con sé una sfida morale che disorienta. Inventiamo tutto noi: dunque, cosa dovremmo inventare? Ahimè, questo dilemma – dilemma causato dall’avere così tanta libertà – è indecidibile.

Quando le dimensioni e la complessità di un programma aumentano, il software può diventare un arduo rompicapo. Allorché vengono coinvolti altri programmatori, può trasformarsi in un vero e proprio labirinto. Se si è abbastanza esperti, è possibile scrivere un piccolo programma da zero, ma riuscire a modificare con successo un programma esteso richiede uno sforzo immenso (e non poca fortuna), soprattutto se da esso dipendono già altri programmi. Anche i migliori team di sviluppo software si ritrovano periodicamente alle prese con uno sciame di bug e di aporie progettuali.

È un piacere scrivere da soli un piccolo programma, ma mantenere in efficienza un applicativo di grandi dimensioni è sempre un lavoro ingrato. È per questa ragione che la tecnologia digitale rischia di provocare una specie di schizofrenia nella psiche del programmatore. C’è una costante confusione tra computer reale e computer ideale. I tecnologi vorrebbero che ogni software si comportasse come un divertente programmino nuovo di zecca, e adotteranno qualunque strategia psicologica disponibile per evitare di pensare ai computer in modo realistico.

La fragilità intrinseca dei programmi con qualche anno alle spalle può far sì che la progettazione digitale si congeli a causa di un processo noto come lock-in. Ciò accade quando molti programmi software sono progettati per funzionare con un applicativo preesistente. Apportare modifiche significative a un software in una situazione in cui tanto altro software dipende da esso è la cosa più difficile da realizzare. Per questa ragione, non succede quasi mai.

Di tanto in tanto compare un Eden digitale

Un giorno nei primi anni ottanta, un progettista di sintetizzatori musicali di nome Dave Smith escogitò per caso un sistema per rappresentare le note musicali. Lo chiamò Midi. Nel suo approccio, la musica era concepita secondo la visuale di un tastierista. Il Midi era composto da configurazioni digitali che rappresentavano eventi possibili su una tastiera, come «key-down» (tasto premuto) e «key-up» (tasto rilasciato).

Ciò significava che esso non poteva rendere le espressioni sinuose ed effimere prodotte da una voce umana o da un sassofono. Riusciva a descrivere solo il mondo fatto a mosaico di un tastierista, non quello ad acquerello di un violinista. Ma non c’era ragione perché il Midi tenesse conto dell’intero spettro delle espressioni musicali, dal momento che Dave voleva soltanto connettere tra loro alcuni sintetizzatori, in modo da avere a disposizione una tavolozza di suoni più ampia suonando una sola tastiera. Nonostante i suoi limiti, il Midi diventò lo standard per rappresentare la musica nel software. I programmi musicali e i sintetizzatori vennero progettati per lavorare con il Midi, e ben presto ci si rese conto che modificare o eliminare tutto quel software e quell’hardware sarebbe stato impossibile. Il Midi si era saldamente insediato, e lì rimane a tutt’oggi, nonostante gli eroici sforzi per attuare una riforma compiuti in più occasioni da una schiera di potenti organizzazioni commerciali, accademiche e professionali a livello internazionale.

Gli standard e la loro inevitabile mancanza di flessibilità costituivano un ostacolo ben prima che esistessero i computer, naturalmente. Lo scartamento dei binari ferroviari ne è un esempio. La metropolitana di Londra fu progettata a scartamento ridotto e con gallerie delle dimensioni corrispondenti, cosa che, in molte linee, impedisce che vi sia spazio per installare impianti di condizionamento dell’aria. Così, decine di migliaia di pendolari di una delle città più ricche del mondo devono affrontare ogni giorno viaggi soffocanti a causa di una scelta progettuale rigida fatta più di cent’anni fa.

Ma il software è peggio della ferrovia, perché deve sempre aderire con perfezione millimetrica a un disordine del tutto particolare, arbitrario, intricato e difficile da governare. I requisiti d’ingegnerizzazione sono così severi e perversi che cercare di adeguarsi a modifiche negli standard può rivelarsi una battaglia senza fine.

Se dunque il lock-in nel mondo delle ferrovie può essere paragonato a una specie di gangster, in quello digitale è un tiranno assoluto.

Vivere sulla superficie curva della legge di Moore

Ogni tanto capita che un particolare applicativo occupi una nicchia e che, una volta implementato, diventi inalterabile: ciò costituisce un aspetto letale e snervante della tecnologia dell’informazione. Da quel momento esso diventa un elemento permanente, anche se un modello migliore avrebbe potuto prendere tranquillamente il suo posto prima che esso si radicasse. Un banale fastidio deflagra quindi in una sfida apocalittica, perché la potenza bruta dei computer cresce in modo esponenziale. Nel mondo dei computer questo fenomeno è noto come legge di Moore.

Da quando ho iniziato la mia carriera i computer sono diventati milioni di volte più potenti, e immensamente più diffusi e più connessi; e non stiamo parlando di così tanto tempo fa. È come se vi inginocchiaste a piantare il seme di un albero e quello crescesse così velocemente da inghiottire tutto il paese prima ancora che vi siate rimessi in piedi.

Così, il software mette i tecnologi di fronte a ciò che spesso viene percepito come un livello eccessivo di responsabilità. Dato che la potenza dei computer cresce a un ritmo esponenziale, i tecnologi che progettano e programmano devono prestare estrema attenzione quando compiono scelte di progettazione. Le conseguenze di decisioni minime, inizialmente irrilevanti, vengono spesso amplificate fino a diventare regole dirimenti e immutabili delle nostre vite.

Il Midi oggi è nel vostro telefono e in miliardi di altri dispositivi. È la struttura su cui è creata praticamente tutta la musica pop che ascoltate. Gran parte dei suoni che ci circondano – la musica ambient, i bip, le suonerie, gli allarmi – sono concepiti in Midi. L’esperienza uditiva umana nel suo complesso è ormai fatta di note discrete che possono essere disposte su una griglia.

Un giorno il processo di lock-in riguarderà un programma digitale di riproduzione vocale, il quale consentirà ai computer di parlare meglio di quanto facciano. Può darsi che quel programma verrà adattato alla musica e forse nascerà un tipo di musica digitale più fluida ed espressiva. Ma anche se accadrà, fra mille anni, quando una nostra pronipote starà viaggiando alla velocità della luce per esplorare una nuova galassia, verrà probabilmente tormentata dal bip bip di qualche orribile musichetta Midi che la avvisa della necessità di ricalibrare il filtro antimateria.

Il lock-in trasforma i pensieri in fatti

Prima del Midi, una nota musicale era un’idea insondabile che trascendeva una definizione assoluta. Era un modo di pensare dei musicisti, o una maniera di insegnare e tramandare la musica. Era un utensile mentale distinto dalla musica in sé. Per esempio, la stessa registrazione trascritta da persone diverse poteva dar luogo a partiture lievemente differenti.

Dopo l’avvento del Midi, una nota musicale non è stata più solo un’idea, ma una struttura rigida e vincolante, ineludibile in tutti gli aspetti della vita investiti dal digitale. Il processo di lock-in è come un’onda che a poco a poco fa sbiadire le regole cui siamo abituati nella nostra vita, eliminando le ambiguità e quindi la flessibilità del pensiero man mano che un numero sempre maggiore di strutture mentali si solidifica in realtà permanente ed effettiva.

Possiamo paragonare il lock-in al metodo scientifico. Karl Popper aveva ragione quando dichiarò che la scienza è un processo che falsifica le idee man mano che progredisce: per esempio, non si può più ragionevolmente credere a una terra piatta, sbucata dal nulla qualche migliaio di anni fa. La scienza scarta le idee empiricamente, per buone ragioni. Il lock-in, invece, rimuove opzioni alternative di design con il solo criterio della facilità di programmazione, di quanto è politicamente fattibile, di quello che è di moda o di quello che si è creato per caso.

Il lock-in scarta le idee che non si adattano allo schema vincente di rappresentazione digitale, e inoltre riduce o limita le idee che rende immortali, privandole di quell’insondabile zona d’ombra del significato che distingue una parola del linguaggio naturale dall’istruzione di un programma software.

I criteri che guidano la scienza sono forse più degni di rispetto di quelli che guidano il lock-in ma, a meno che non si escogiti un modo del tutto diverso di produrre software, si può scommettere che in futuro ci saranno ulteriori lock-in. Il progresso scientifico, di contro, richiede sempre determinazione e può ristagnare per ragioni politiche, per mancanza di fondi o di curiosità. Ecco una sfida interessante: come può un musicista rimanere fedele al concetto più ampio, più indefinito di «nota» che esisteva prima del Midi quando usa il midi tutto il giorno e interagisce con altri musicisti attraverso il filtro del Midi? E vale la pena provarci? Un artista digitale non dovrebbe arrendersi al lock-in e accettare l’idea finita, infinitamente esplicitata di una nota Midi?

Se è importante trovare il limite del mistero, meditare quanto non può essere definito con esattezza (o reso in uno standard digitale), allora saremo eternamente costretti a cercare idee e oggetti nuovissimi, abbandonando i vecchi come le note musicali. Nel corso di tutto questo libro affronterò la questione se le persone stiano diventando come le note Midi: definite in eccesso e limitate in pratica a quello che può essere rappresentato da un computer. Le implicazioni sono enormi: è possibile immaginare di abbandonare le note musicali, non lo è di abbandonare noi stessi.

Quando Dave inventò il Midi, io ne fui entusiasta. Alcuni miei amici del gruppo originale del Macintosh costruirono velocemente un’interfaccia hardware che consentisse a un Mac di usare il Midi per controllare un sintetizzatore, e io misi a punto nel giro di poco tempo un programma di creazione musicale. Ci sentivamo così liberi; ma avremmo fatto meglio a essere più cauti.

Al punto in cui ci troviamo, modificare il Midi è diventato difficilissimo, e così è stata la cultura a modificarsi per farlo sembrare più ricco di quanto non volesse essere in partenza. Abbiamo ridotto le nostre aspettative nei confronti delle forme più comuni di suoni musicali allo scopo di rendere adeguata la tecnologia. Non è stata colpa di Dave. Come avrebbe potuto immaginarlo?

Reificazione digitale: il lock-in trasforma la filosofia in realtà

Molte delle idee soggette a lock-in riguardanti il modo in cui si costruisce un software provengono da un vecchio sistema operativo, Unix, che presenta alcune caratteristiche apparentabili al Midi.

Laddove il Midi comprime l’espressione musicale in un modello ristretto dell’azione dei tasti su una tastiera musicale, Unix fa la stessa cosa per ogni computazione, ma usando l’azione di tasti su tastiere simili a quelle della macchina per scrivere. Un programma Unix somiglia spesso alla simulazione di una persona che batte velocemente a macchina.

In Unix esiste una caratteristica progettuale di base chiamata «interfaccia a riga di comando». In questo sistema operativo si digitano le istruzioni, si preme il tasto «invio» e le istruzioni vengono eseguite. Uno dei principi di progetto generali di Unix è che un programma non è in grado di stabilire se a premere il tasto «invio» sia stata una persona o un programma. Dal momento che gli operatori reali sono più lenti di quelli simulati a usare una tastiera, questa particolare caratteristica elimina l’importanza di una sincronizzazione precisa. Di conseguenza, Unix si basa su eventi discreti che non debbono avvenire in un momento preciso. L’organismo umano, al contrario, si basa su processi sensoriali, cognitivi e motori continui che debbono essere sincronizzati con precisione nel tempo (il Midi si trova a metà strada fra il concetto di tempo incorporato in Unix e quello caratteristico del corpo umano, dato che si basa su eventi discreti che avvengono in momenti determinati.).

Unix incarna una fede eccessiva nei simboli astratti discreti, fede che al tempo stesso si rivela troppo debole nei confronti della realtà temporale, continua e non astratta; è più simile a una macchina per scrivere che a un compagno di ballo (forse le macchine per scrivere e i sistemi di videoscrittura dovrebbero sempre rispondere in tempo reale, come un compagno di ballo; ma non è ancora così). Unix tende a «volersi» connettere alla realtà come se la realtà fosse una rete di veloci dattilografi.

Se si spera che i computer debbano essere progettati per servire persone in carne e ossa, oltre che persone astratte, Unix dovrebbe essere considerato frutto di una cattiva progettazione. L’ho scoperto negli anni Settanta, quando cercai di servirmene per creare strumenti musicali sensibili come quelli reali. Stavo cercando di fare quello che non fa il Midi, cioè lavorare con gli aspetti fluidi della musica, quelli difficili da descrivere con la notazione, e scoprii che la filosofia interna di Unix era troppo fragile e rozza per quello scopo.

Le argomentazioni in favore di Unix si incentravano sulla considerazione che nei decenni successivi i computer sarebbero diventati, letteralmente, milioni di volte più veloci. Si pensava che l’aumento di velocità avrebbe reso trascurabili i problemi di sincronizzazione che mi lasciavano perplesso. È un fatto che i computer di oggi siano milioni di volte più veloci e che Unix sia diventato parte integrante della nostra vita. Esistono strumenti ragionevolmente espressivi che lo contengono, dunque in alcuni casi l’aumento di velocità è bastato a compensare i problemi di Unix.

Ho in tasca un iPhone, e quello che c’è al suo interno è sostanzialmente Unix. Un aspetto irritante di questo gadget è il fatto che presenta un’incomprensibile serie di ritardi imprevedibili dell’interfaccia utente. Quando si preme un pulsante virtuale, la mente si aspetta subito una risposta che però arriva solo dopo un po’. In quell’intervallo di tempo viene a crearsi una strana tensione, e la semplicità intuitiva lascia il posto al nervosismo. È lo spettro di Unix, che dopo tutti questi anni si rifiuta ancora di adattarsi ai ritmi del mio corpo e della mia mente.

Non è che ce l’abbia in particolare con l’iPhone (di cui tratterò più avanti, in un altro contesto). Avrei potuto nominare uno qualunque dei personal computer odierni. Windows non è Unix, ma entrambi hanno in comune l’idea che un simbolo sia più importante del flusso temporale e della continuità dell’esperienza che vi è sottesa.

La difficile relazione fra Unix e il mondo temporale in cui il corpo umano si muove e la mente umana pensa è un esempio di lock-in fastidioso ma non disastroso. Forse renderà più facile alle persone apprezzare il buon vecchio mondo fisico quanto più la realtà virtuale migliora. Se così fosse, non tutto il male sarebbe venuto per nuocere.

Le filosofie del software radicato: così ubiquitarie da diventare invisibili

Un’idea soggetta a un lock-in ancora più rigido è il concetto di file. Una volta, non troppo tempo fa, moltissimi informatici pensavano che l’idea di file non fosse poi un granché.

Per esempio, il primo progetto di qualcosa di simile al World Wide Web, Xanadu di Ted Nelson, immaginava per il mondo un unico file gigantesco e globale. La prima versione del Macintosh, che non arrivò mai sul mercato, non aveva file. Tutto il lavoro dell’utente si accumulava in un’unica grande struttura, una specie di pagina web personale. Steve Jobs riprese il progetto del Mac da chi lo aveva iniziato, Jef Raskin (oggi scomparso), e ben presto apparvero i file.

Unix aveva i file; il Mac, come apparve sul mercato, aveva i file; Windows ha i file. I file sono ormai una parte della nostra vita; la nozione di file viene insegnata agli studenti d’informatica come se si trattasse di un fenomeno naturale. Anzi, il concetto che abbiamo di file potrebbe essere più tenace delle nostre idee sulla natura. Riesco a immaginare che un giorno i fisici ci diranno di smetterla di credere ai fotoni, perché hanno scoperto un modo più appropriato di pensare alla luce: ma anche allora, probabilmente, i file sopravviveranno.

Il file è un insieme di idee filosofiche incarnate e poi rese incorruttibili. Fra le idee espresse dal file vi è il concetto che l’espressione umana si presenti in parti scindibili e organizzabili come foglie su un albero astratto, e che quelle parti abbiano delle versioni e debbano essere abbinate ad applicazioni compatibili.

Che significato hanno i file per il futuro dell’espressione umana? Rispondere a questa domanda è meno facile che rispondere a quest’altra: «in che modo la lingua inglese influenza i pensieri dei madrelingua inglesi?». Un madrelingua inglese può se non altro essere paragonato a un madrelingua cinese, ma i file sono universali. L’idea del file è cresciuta al punto che non riusciamo a concepire un quadro sufficientemente ampio da contenerla e consentirci così di valutarla empiricamente.

Quello che è successo ai treni, ai file e alle note musicali potrebbe presto succedere alla definizione di essere umano

Vale la pena cercare di stabilire quando le filosofie si congelano in un software soggetto a lock-in. Per esempio: l’anonimato (o pseudonimato) diffuso è una buona cosa? La domanda è importante, perché le relative filosofie che si occupano del modo in cui gli esseri umani possono esprimere significato sono così radicate nei software interdipendenti di internet che forse non riusciremo mai a liberarci completamente di loro, o addirittura a ricordare che le cose sarebbero potute andare in altro modo.

Dovremmo almeno provare a evitare questo caso particolarmente insidioso di lock-in che incombe su di noi. Il lock-in ci fa dimenticare le libertà perdute di cui godevamo nel passato digitale. E ciò può rendere più difficile scorgere quelle di cui godiamo nel presente digitale. Per fortuna, malgrado la difficoltà, è sempre possibile cercare di modificare alcune espressioni filosofiche a rischio di lock-in negli strumenti che usiamo per capirci l’un l’altro e per capire il mondo.

Una bella sorpresa

L’avvento del Web è stato uno di quei rari casi in cui abbiamo appreso informazioni inedite e positive sulle potenzialità umane. Chi avrebbe mai detto (almeno all’inizio) che milioni di persone si sarebbero impegnate tanto in un progetto privo di pubblicità, di scopi commerciali, di minacce di castigo, di figure carismatiche, di politica identitaria, di sfruttamento della paura della morte o di qualunque altra delle motivazioni classiche dell’umanità? Un numero enorme di persone ha lavorato insieme per realizzare una cosa solo perché era una buona idea, e per giunta bella.

Alcuni degli eccentrici visionari del mondo digitale l’avevano previsto, ma quando è successo davvero è stato comunque uno shock. Si scopre che è possibile realizzare anche una filosofia ottimistica e idealistica. Metti una felice filosofia di vita nel software, e potrebbe avverarsi!

Perché lasciare ai luddisti la critica alla tecnologia?

Non tutte le sorprese sono state gradevoli, però.

Il qui presente rivoluzionario digitale crede ancora in quasi tutti i nobili e profondi ideali che tanti anni fa avevano stimolato il nostro lavoro. Alla base c’era una fede ingenua nella natura umana. Dando più potere alle persone, così credevamo, ne sarebbe risultato più vantaggio che danno.

Il modo in cui internet è degenerata da allora è veramente perverso. L’assunto centrale della progettazione originaria del Web è stato rimpiazzato da una fede del tutto differente nella centralità di entità immaginarie riassumibile nell’idea che internet nel suo complesso stia prendendo vita e si stia trasformando in una creatura superumana.

I progetti guidati da questa fede nuova e perversa hanno ricacciato nell’ombra gli individui. Le finestre di Windows si erano come aperte per tutti negli anni novanta, ma la mania dell’anonimato ha vanificato quella possibilità. Questo rovesciamento ha favorito parecchio i sadici, anche se l’effetto peggiore è stata la degradazione della gente comune.

In parte, ciò è successo perché il volontariato si è dimostrato una forza potentissima nella prima versione del Web. Quando il mondo del business si affrettò a capitalizzare quanto era accaduto, sorse una difficoltà, nel senso che l’aspetto contenutistico del Web, il lato culturale, funzionava piuttosto bene anche senza un business plan.

Poi arrivò Google con l’idea di abbinare pubblicità e ricerca, anche se quel business non influenzava direttamente ciò che le persone facevano davvero on line. Ebbe sì degli effetti, ma solo indiretti. Le prime attività sul Web possedevano un’energia notevole e avevano un’impronta personale. La gente creava «homepage» personali tutte diverse le une dalle altre, spesso bizzarre. Sapeva di qualcosa, il Web.

Naturalmente gli imprenditori cercarono di escogitare prodotti in grado di creare una domanda (o almeno ipotetiche opportunità pubblicitarie che potessero in futuro far concorrenza a Google) in un contesto in cui non c’erano vuoti da riempire né bisogni da soddisfare, a parte l’avidità pura e semplice. Google aveva scoperto una nuova nicchia, praticamente inespugnabile per l’eternità e resa possibile dalla natura della tecnologia digitale. Si scopre che il sistema digitale in grado di rappresentare persone e pubblicità in modo che possano essere abbinate è analogo al Midi. È un esempio di come la tecnologia digitale possa determinare una

Crescita esplosiva dell’importanza dell’«effetto network». Ogni elemento del sistema – ogni computer, persona, bit – finisce col dipendere dall’adesione assoluta, senza scampo, a uno standard comune, a un comune punto di scambio.

A differenza del Midi, il software segreto standard di Google si trova nascosto nella sua computing cloud anziché replicato nelle vostre tasche (Il termine cloud, nuvola, indica un’ampia risorsa computazionale disponibile su internet. È impossibile sapere dove essa risieda fisicamente. Google, Microsoft, ibm e diverse agenzie governative sono alcuni dei proprietari di computing cloud). Chiunque voglia fare pubblicità è costretto a usare quello standard o a restare emarginato, confinato in una sottocultura esigua e irrilevante, proprio come i musicisti digitali sono costretti a usare il Midi per lavorare insieme agli altri nel regno digitale. Nel caso di Google, il monopolio è opaco e proprietario. (A volte le nicchie digitali soggette a lock-in sono proprietarie, altre volte no. Le dinamiche sono le stesse in entrambi i casi, sebbene le implicazioni commerciali possano essere diversissime.)

La nicchia inespugnabile di Google ha spazio per un solo attore, il che spiega perché la maggior parte delle strategie concorrenziali che si sono succedute si siano rivelate un fallimento. Leviatani come facebook hanno modificato la cultura con intento commerciale, ma, fino al momento in cui scriviamo, senza esiti commerciali.

Per come la vedo io, si sarebbero potuti ottenere nuovi successi commerciali in tantissimi modi, ma la fede degli smanettoni ha condotto gli imprenditori lungo una strada ben precisa. La produttività volontaria deve diventare una commodity, un bene di consumo, perché il genere di fede che sto criticando prospera quando si può fingere che i computer facciano tutto, e le persone non facciano niente.

Una serie infinita di strategie sostenute da investimenti giganteschi ha incoraggiato i giovani a entrare per la prima volta nel mondo on line per creare presenze standardizzate su siti come Facebook. Sono interessi commerciali ad aver promosso l’adozione generalizzata di modelli standardizzati come il blog, e questi modelli hanno incoraggiato – almeno in alcuni aspetti della progettazione, per esempio i commenti – lo pseudonimato al posto della baldanzosa estroversione caratteristica della prima ondata della cultura web.

Anziché trattare le persone come sorgenti della propria creatività, i siti di aggregazione e di astrazione commerciale hanno presentato dei frammenti di creatività resi anonimi come prodotti che, per quanto se ne sa, potrebbero essere caduti dal cielo o spuntati dal terreno, oscurando in tal modo la loro autentica origine.

Ascesa di una tribù

Siamo arrivati a questo punto a causa del fatto che di recente una sottocultura di tecnologi è diventata più influente delle altre. La sottocultura vincente non ha un nome ufficiale, ma talvolta io ho definito i suoi esponenti sostenitori del totalitarismo cibernetico o «maoisti digitali».

La tribù in ascesa è composta da gente che proviene dal mondo dei creative commons, dalla cultura dell’«open», la comunità di Linux, gente che, nei confronti dell’informatica, è legata all’approccio dell’intelligenza artificiale, sostenitori del Web 2.0, del file sharing e di ogni possibile contaminazione contro il sistema, e di svariati altri. La loro capitale è la Silicon Valley, ma hanno basi in tutto il mondo, dovunque si crei cultura digitale. Fra i loro blog preferiti: Boing Boing, Techcrunch e Slashdot; la loro ambasciata in Europa, «Wired».

Ovviamente quello che sto dipingendo è un quadro a grandi linee: non tutti i membri dei gruppi che ho nominato sottoscrivono in blocco le convinzioni che critico. Anzi, il problema del pensiero condiviso che mi preoccupa non sta tanto nella mente dei tecnologi stessi, quanto in quella di chi usa gli strumenti promossi dai sostenitori del totalitarismo cibernetico.

Il principale errore della cultura digitale più recente è stato quello di spezzettare una rete di individui fino a ritrovarsi alla fine con una specie di poltiglia. A quel punto, inizi a preoccuparti dell’astrazione della rete invece delle persone reali che in rete sono collegate, anche se la rete come tale è priva di significato. Le sole cose che abbiano mai avuto un significato sono le persone.

Quando parlo di tribù, non intendo riferirmi a un «loro» distante e alieno. I membri della tribù sono miei amici di lunghissima data, miei mentori, miei studenti, miei colleghi e miei compagni di viaggio. Molti dei miei amici non sono d’accordo con me. Va a loro onore che io mi senta libero di dire come la penso, sapendo che continueranno ad accettarmi.

D’altra parte, sono consapevole dell’esistenza di una tradizione informatica d’impronta umanistica. Alcune delle sue figure più note sono Joseph Weizenbaum, oggi scomparso, Ted Nelson, Terry Winograd, Alan Kay, Bill Buxton, Doug Engelbart, Brian Cantwell Smith, Henry Fuchs, Ken perlin, Ben Shneiderman (inventore dell’idea di cliccare su un link) e Andy Van Dam, un grande maestro che ha formato generazioni di protégé, fra i quali Randy Pausch. Altra figura di rilievo di questa corrente umanistica è David Gelernter, ideatore di gran parte dell’impalcatura tecnica di quello che un giorno si sarebbe chiamato «cloud computing», nonché di molte delle potenziali applicazioni pratiche delle «nuvole».

E tuttavia va notato come l’umanesimo nell’informatica non appaia collegato ad alcuna particolare corrente culturale. Ted Nelson, per esempio, è un figlio degli anni Sessanta, autore di quello che è forse il primo musical rock (Anything & Everything), a suo modo un vagabondo e certo un personaggio emblematico della controcultura. Al contrario, David Gelernter è un conservatore in ambito politico e culturale, autore di articoli per giornali quali «commentary» e professore a Yale. Eppure io ho trovato ispirazione nell’opera di entrambi.

Trappola per una tribù

La tribù dei sostenitori del totalitarismo cibernetico è benintenzionata. Essi si limitano a percorrere una strada tracciata in passato da altrettanto benintenzionati freudiani e marxisti, termini questi che non uso in senso negativo. Penso per esempio al marxismo delle sue prime incarnazioni, prima che lo stalinismo e il maoismo uccidessero milioni di persone.

I movimenti associati a Freud e a Marx sostenevano entrambi di fondarsi sulla razionalità e sulla comprensione scientifica del mondo. Entrambi si sentivano in conflitto con le fantasticherie bizzarre e manipolatorie della religione. Eppure entrambi generarono fantasticherie non meno bizzarre di quelle.

Oggi stiamo assistendo allo stesso fenomeno. Un movimento che si autodefinisce materialista e che tenta di porre i suoi fondamenti nella scienza comincia ad assomigliare a una religione piuttosto in fretta. Poco dopo presenta una propria escatologia e una propria rivelazione su quanto sta veramente succedendo: eventi portentosi, comprensibili solo agli iniziati. La Singolarità e la noosfera, l’idea cioè che da tutti gli utenti del Web emerga una coscienza collettiva,

Echeggiano il determinismo sociale marxista e il calcolo delle perversioni di freud. Ignoriamo lo scetticismo dell’indagine scientifica a nostro rischio e pericolo, proprio come i marxisti e i freudiani.

Pensano di poter risolvere ogni mistero in quattro e quattr’otto, ma sono lacerati al loro interno da scismi, proprio com’è sempre successo a marxisti e freudiani. Per loro è incredibile che io riconosca dei tratti comuni fra gli appartenenti alla tribù. Per loro Linux e unix sono due cose completamente diverse, per esempio, mentre io li vedo come punti sovrapposti sulla grande tela della possibilità (gran parte della quale, a dire il vero, oggi è già dimenticata).

A ogni modo, il futuro della religione sarà determinato dalle idiosincrasie del software che andrà incontro al lock-in nei prossimi decenni, esattamente come il futuro delle note musicali e della personalità individuale.

A che punto siamo del viaggio

È il momento di fare un bilancio. Con l’introduzione del World Wide Web si è verificata una cosa sorprendente. La fede nella bontà umana ha trovato una conferma quando uno strumento informativo straordinariamente aperto e non strutturato è stato reso disponibile per un gran numero di persone. Tale apertura, a questo punto, può essere dichiarata «locked-in» in misura significativa. Evviva!

Allo stesso tempo, sono locked-in anche alcune idee mediocri sulla vita e sul significato, come la nozione di suono musicale senza sfumature del Midi e l’incapacità di Unix di dar conto del tempo quale lo esperiscono gli esseri umani.

Si tratta di costi accettabili, quelle che io definirei perdite estetiche. Esse tuttavia sono controbilanciate da alcune vittorie estetiche. L’aspetto visivo del mondo digitale è migliore di quello sonoro, perché una comunità di attivisti digitali, fra cui gente dello Xerox parc (soprattutto Alan Kay), di Apple, Adobe e del mondo accademico (in particolare Don Knuth della Stanford University), ha condotto una sacrosanta battaglia per salvarci da font irrimediabilmente brutte e da altri elementi visivi che altrimenti ci saremmo trascinati dietro.

Poi ci sono gli elementi del futuro dell’esperienza umana di recente concezione, come l’idea già locked-in di file, e il fatto che siano necessari quanto l’aria che respiriamo. D’ora in avanti il file sarà uno degli elementi fondanti della storia umana, al pari dei geni. Non sapremo mai che cosa questo significhi, o che cosa avrebbero potuto significare le alternative.

Tutto sommato, ce la siamo cavata splendidamente! Ma la sfida che è sul tappeto adesso non assomiglia a nessuna delle precedenti. I nuovi design sul punto di essere lockedin, quelli del Web 2.0, chiedono a gran voce che le persone si definiscano al ribasso. Ora, una cosa è lanciare una concezione limitata della musica o del tempo nella competizione per quali idee filosofiche saranno locked-in. Tutt’altra cosa è farlo con l’idea stessa di quel che significa essere una persona.

Esce domani, per Mondadori, Tu non sei un gadget, di Jaron Lanier, che ha fatto molto discutere per le sue tesi critiche nei confronti degli esegeti delle nuove tecnologie, provenienti da un frequentatore esperto e di lunga data delle suddette nuove tecnologie (qui ne aveva scritto Luca Sofri). Alcuni vi hanno superficialmente letto una denuncia contro “l’odio e la violenza che prosperano in rete” e contro “il monopolio di Google”, e lo hanno tirato molto per la giacchetta: Lanier cerca piuttosto, come spiega in questa parte del primo capitolo che anticipiamo, di aprire una discussione anche autocritica tra i sostenitori della modernità. Una delle idee principali è quella secondo cui nelle tecnologie non ci possono essere un’intelligenza ed un sapere diffuso indipendenti e separabili dall’individualità e dalla creatività umana.

Lanier è uno sviluppatore americano, ha elaborato la definizione virtual reality. Scrive per Edge e Discover, e insegna alla UC Berkeley.