Quella volta che facemmo una breccia nel muro di Porta Pia
E nacquero le discussioni sulla laicità dello Stato italiano e su "Roma capitale"
Esattamente 140 anni fa, alle 10:35 del mattino, lo Stato Pontificio si arrendeva all’esercito italiano che era riuscito ad aprire una breccia nelle mura di Roma nella zona di Porta Pia. «La bandiera bianca sventola sulla croce della cupola di San Pietro, sui merli di Castel Sant’Angelo, e sull’enorme cherubino di bronzo che domina il mastio»* raccontano le cronache dell’epoca. Era il 1870 e a Roma si stava scrivendo uno degli ultimi capitoli del Risorgimento italiano: raggiunta l’unità della nazione nove anni prima, mancava ancora la capitale per dichiarare concluso il processo di unificazione.
Cavour aveva espresso la volontà di rendere Roma la capitale del regno d’Italia già nel 1860, quando buona parte dei territori della penisola erano stati annessi militarmente grazie alle Guerre d’indipendenza e attraverso lo strumento dei plebisciti. Da una parte c’era il regno da poco costituito, dall’altro quel che rimaneva dello Stato Pontificio, ovvero solamente parte del Lazio poiché Marche, Umbria e Romagna si erano già staccate con i plebisciti. Attraverso i canali della diplomazia, e un contatto fidato a Roma, Cavour propose al papa una piena indipendenza per i cattolici e inizialmente sembrava che Pio IX fosse disposto ad accettare la proposta. Ma le trattative nei mesi seguenti fallirono e non se ne fece nulla.
Il problema di Roma era complicato dalla presenza nei territori pontifici di un presidio francese, che era lì per offrire assistenza e protezione al papa. Cavour fece pressioni per ottenere da Napoleone III, l’imperatore di Francia, l’impegno a eliminare il presidio. Le trattative portarono a una bozza d’accordo nella quale la Francia si impegnava a rimuovere il presidio a patto che le forze italiane non attaccassero lo Stato Pontificio. Ma la morte di Cavour, nel giugno del 1861, fece naufragare il progetto.
Le attività diplomatiche proseguirono negli anni seguenti e nel 1863 con la “Convenzione di Settembre” si raggiunse un accordo con i francesi simile a quello abbozzato con Cavour. La Francia si sarebbe ritirata in cambio di un impegno italiano a non invadere lo Stato Pontificio. L’Imperatore riconosceva comunque il diritto all’Italia di intervenire su Roma nel caso di una rivoluzione, cosa che di fatto sanciva numerosi diritti per il regno d’Italia sulla futura capitale.
Le cose si complicarono nel 1867. Davanti alla fase di stallo diplomatica, nel mese di novembre i volontari di Giuseppe Garibaldi tentarono l’invasione del Lazio. I francesi reagirono sbarcando a Civitavecchia e unendosi alle forze pontificie contro i garibaldini. Contravvenendo alla Convenzione di Settembre, i francesi decisero di mantenere un presidio. L’occupazione francese rallentò la diplomazia e portò a un nuovo periodo di stallo, con l’Italia che cercava di portare all’attenzione delle potenze europee la questione di Roma.
Nell’agosto del 1870 terminò la costituzione di una spedizione militare per l’Italia centrale. L’obiettivo ufficiale era quello di mantenere inviolate le frontiere tra terre italiane e Stato Pontificio, ma si ventilava anche la possibilità di intervento militare a Roma nel caso di insurrezioni, per evitare che queste potessero diffondersi ai territori italiani. Una specie di pretesto diplomatico, che di fatto poteva consentire all’esercito di sfondare entro le mura della città. L’8 settembre, Vittorio Emanuele II inviò una lettera a Pio IX manifestando l’intenzione di entrare nello Stato Pontificio.
L’artiglieria guidata dal generale Raffaele Cadorna aprì il 20 settembre una breccia larga trenta metri nelle mura della città a pochi passi da Porta Pia, a nordest della città. Un battaglione di fanteria e uno di bersaglieri entrarono nella città. Dopo le prime esitazioni la popolazione partecipò con entusiasmo, come raccontano le cronache dell’epoca:
Molti cittadini romani cominciano a girare per le strade armati alla meglio e con bandiere tricolori. Una folla considerevole s’avvia alle Quattro Fontane (strada di Porta Pia); accoglie ed accompagna con entusiasmo indescrivibile, con plausi e canti e lacrime di gioia l’esercito liberatore che occupando gli sbocchi delle vie traverse si dirige sulla gran piazza di Monte Cavallo dirimpetto al palazzo del Quirinale.*
La capitale d’Italia, già trasferita da Torino a Firenze nel 1864, divenne infine Roma dopo i plebisciti di annessione del mese di ottobre. Il papa perdeva così il dominio secolare su Roma e si ritirò in Vaticano dichiarandosi prigioniero. Pio IX preparò anche il Non expedit, un duro documento di indirizzo nel quale invitava i cattolici italiani a non partecipare più alla vita politica. L’anno seguente il governo italiano provò a riconciliarsi con il papato, ma il tentativo servì a poco. Solamente nel 1929, con la sottoscrizione dei Patti Lateranensi, le cose si appianarono. Il regime di Mussolini si dimostrò molto generoso nei confronti del Vaticano, offrendo l’esenzione dal servizio militare per il clero, leggi su matrimonio e divorzio conformi a quelle della Chiesa e un risarcimento di 1,75 miliardi di lire.