L’India fa i conti con le caste
L'India riconterà la sua popolazione in base all'appartenenza castale, non succedeva dal 1931
di Elena Favilli
Dallo scorso aprile in India è in corso un mastodontico censimento della popolazione. Due milioni e mezzo di persone lavoreranno per un anno alla classificazione dei dati raccolti giorno dopo giorno in ogni abitazione del paese.
L’India ha oltre un miliardo di persone (1,2 miliardi secondo le ultime stime), di cui il settanta per cento residente in aree rurali. Contarle tutte è di per sé affare abbastanza complicato. Negli ultimi giorni la questione è stata ulteriormente complicata dalla decisione del governo di includere nell’indagine anche la controversa struttura delle caste, un’operazione che sarà effettuata tra giugno e settembre 2011 e sarà separata dal resto del conteggio. Rispondere alle domande sulla casta di provenienza sarà opzionale, ma la scelta di ripristinare un parametro di classificazione abbandonato dai censimenti dopo l’epoca coloniale ha comunque sollevato molte polemiche.
Il governo ha motivato la sua decisione con un argomento apparentemente indistruttibile: data la forte correlazione esistente da sempre tra caste e status socio-economico degli individui, raccogliere questi dati permetterà di combattere con più efficacia le ineguaglianze della popolazione. L’obiettivo dichiarato è censire tutti i gruppi appartenenti a quelle che la Costituzione indiana chiama genericamente Socially and Educationally Backward Classes (classi arretrate socialmente e scolasticamente), che secondo uno degli ultimi rapporti pubblicati dal governo costituiscono il 52 per cento dell’intera popolazione. Nonostante le caste siano state formalmente abolite, il loro ruolo nella società continua infatti ad essere estremamente rilevante. Per capirlo però è necessario smontare alcuni degli equivoci più diffusi legati alla struttura della società indiana.
Innanzitutto non è vero che le caste sono solo quattro. O meglio, quattro sono le grandi caste – varna, in sanscrito – che derivano dal sistema di stratificazione gerarchica della società che si era sviluppato gradualmente con l’induismo nel corso del primo millennio a.C. Al primo posto ci sono i sacerdoti o bramini; poi i guerrieri o kshatriya; quindi i vaisya, artigiani e mercanti; e infine i sudra, contadini, artigiani più poveri, servitori. Più in basso di tutti nella scala sociale sono i “fuori casta”, genericamente indicati come paria o intoccabili, esclusi dal novero castale per la loro occupazione – sono quelli che svolgono tutti i lavori considerati massimamente impuri come la pulizia dei bagni o la sepoltura dei morti – o per aver perso, violandone le norme, l’appartenenza alla casta e, con essa, i diritti sociali e i ruoli nella ritualità religiosa. Gandhi, che lottava per la loro emancipazione, li chiamò harijan, “figli di Dio”. Oggi i fuori casta preferiscono definirsi dalit, “gli oppressi”: un termine che vuole segnalare il passaggio da oggetti di un atteggiamento umano e caritatevole a soggetti attivi di una rivendicazione di diritti.
Nel corso del tempo però ognuna delle quattro caste si è venuta spezzettando in una moltitudine di raggruppamenti minori, che sono quelli che troviamo concretamente nell’India di oggi sotto il nome di jati (che vuol dire “nascita”). Questo spezzettamento è avvenuto sotto la spinta di ragioni geografiche, storiche, etniche, linguistiche. I nomi attuali delle jati sono in prevalenza di mestieri, ma anche di stirpi, di tribù, di sètte, di luoghi geografici. E variano da una regione all’altra dell’India. Ce ne sono migliaia.
Il che conduce al secondo mito da sfatare: le caste non sono dei blocchi monolitici, le cui condizioni si danno sempre uguali in qualsiasi zona del paese e in qualsiasi tempo. Persone appartenenti alla stessa casta possono avere standard di vita estremamente diversi a seconda dell’area in cui vivono. Alcuni degli studi più recenti sul vastissimo mondo delle caste indiane hanno infatti dimostrato che oggi in India le diseguaglianze sociali dipendono molto di più dal livello di sviluppo della regione di appartenenza che dalla propria casta, intendendo per livello di sviluppo l’insieme delle condizioni prodotte dalla combinazione di educazione, urbanizzazione e occupazione.
La parte sud dell’India, per esempio, ha potuto beneficiare maggiormente del boom economico degli ultimi trent’anni proprio grazie ai maggiori investimenti che queste regioni hanno dedicato al campo dell’istruzione. Qui, oggi, persone appartenenti a famiglie che un tempo non potevano neanche entrare nei templi sono a capo di alcune delle aziende informatiche più avanzate del paese. Nel nord invece gli sforzi dei sostenitori delle classi arretrate si sono concentrati solo in direzione dell’acquisizione di un maggiore potere politico, che però non è sempre coinciso con un reale miglioramento delle condizioni di vita delle persone più emarginate, che essendo rimaste su livelli di istruzione bassi non hanno potuto approfittare pienamente dell’ampliamento dei loro diritti. Basti pensare che il 70% delle funzioni più qualificate all’interno del paese è tuttora ricoperto dagli appartenenti alla casta più alta, quella dei Bramini, sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione. Il risultato è stato quindi un paradossale contribuito al mantenimento delle discriminazioni sociali previste dalla struttura gerarchica delle caste. Tra le principali:
1. l’endogamia, e cioè il dovere di sposarsi solo all’interno della propria casta;
2. l’esercizio da parte di tutti i suoi membri della stessa attività lavorativa;
3. l’osservanza di riti religiosi, consuetudini, regole alimentari specifiche della casta;
4. l’essere inserito all’interno di una rigida gerarchia tra i diversi gruppi sociali. Le caste sono gruppi chiusi: è impossibile, per un singolo individuo, passare alla casta superiore. Chi nasce in una casta, morirà in quella casta, a meno che un suo comportamento negativo lo faccia precipitare nello stato di “senza casta”.
La scelta del governo di includere anche la casta tra i parametri del censimento in corso, quindi, non fa altro che riflettere il peso che questa struttura tuttora riveste nella società, soprattutto al nord. I politici che lì si fanno portatori delle istanze delle classi più basse hanno fatto molte pressioni in questo senso negli ultimi mesi, perché sperano che dimostrando la loro forza numerica convinceranno il governo ad aumentare le quote in materia di istruzione, lavoro e seggi parlamentari garantite alle loro comunità, e in parte già previste dalla Costituzione.
L’ultima volta che le caste erano state chiamate in causa durante un censimento fu nel 1931, quando l’India era ancora sotto il dominio britannico. Per questo chi oggi si oppone alla scelta del governo indiano di ripristinare questo parametro sostiene che si tratti di un ritorno al passato, che non tiene conto delle evoluzioni più recenti delle caste e delle reali esigenze della società indiana. Negli ultimi decenni il sistema delle caste ha cominciato ad essere modificato dall’avvento di forme di economia moderna, dall’urbanizzazione, dall’introduzione di un regime politico parlamentare che si fonda, in teoria almeno, sull’eguaglianza di tutti i cittadini. Le classi sociali moderne hanno fatto la loro comparsa. Membri delle caste basse, o addirittura dei senza casta, hanno potuto ottenere successi economici e prestigio politico. E le distinzioni si sono fatte meno nette, o quanto meno si sono arricchite di nuovi significati e contraddizioni.
Oggi in India l’agricoltura è praticata dal 90% dei membri di caste di agricoltori (il che significa che il rimanente 10% si dedica ad altre attività), ma anche dal 43% dei membri di caste non agricole. Questo si deve anche al fatto che l’agricoltura è considerata un’occupazione neutra e rispettabile. Solo i membri delle caste più elevate (in particolare i bramini) sono restii a praticarla, perché preferiscono evitare di ferire con l’aratro la Madre Terra e le creature che in essa vivono. I guerrieri in pratica non esistono più. I bramini non fanno necessariamente i sacerdoti, anche se occorre sempre un bramino per svolgere le funzioni sacerdotali. Possono essere ministri, industriali, ma anche servi di un bramino più fortunato o guardiani di un tempio di campagna semi abbandonato.
Per contro, anche un intoccabile che partecipi alla vita politica, e che sia votato da molti elettori, può essere eletto parlamentare e nominato ministro. Ma quando escono dai loro ministeri e vanno a casa, il bramino tornerà ad essere bramino, e l’intoccabile intoccabile. Così come non c’è identità totale tra casta e professione, non ce n’è neppure tra casta e ricchezza: ci possono essere ricchi agricoltori sudra e bramini poveri. Tuttavia, l’appartenenza di casta continua a influenzare fortemente le scelte professionali e il successo degli individui. Se incontrate un intellettuale, un professore universitario, è molto facile che sia di famiglia braminica; se è un imprenditore capitalista, è molto facile che provenga da una jati di vaisya, i commercianti. Quanto agli intoccabili (salvo poche eccezioni), se non svolgono i loro tradizionali mestieri disprezzati sono, quasi sempre, braccianti agricoli (a volte addirittura servi), o proletari e sottoproletari se hanno abbandonato il loro villaggio per la città.
Bisogna infine ricordare che l’induismo non esisterebbe senza le caste, che sono espressione della trasmigrazione delle anime. Secondo la religione induista, chi conduce una vita onesta, in armonia con l’ordine cosmico, rispettosa delle regole della propria casta – dharma – può sperare, in una futura trasmigrazione, di passare in una casta superiore, fino a raggiungere quel massimo livello di purezza che permette la dissoluzione nell’Assoluto e l’uscita dal ciclo delle migrazioni, visto dall’induismo come una condanna. In quest’ottica, la casta nella quale un individuo nasce è il risultato delle sue azioni in una vita precedente. Le ineguaglianze fra gli uomini sono quindi motivate da azioni passate e sono accettate perché considerate provvisorie: valgono cioè fino alla morte dell’individuo e alla sua successiva reincarnazione.