La moschea di Milano
Il Foglio fa il punto concreto di un dibattito piuttosto affollato e dispersivo
Sul progetto per la moschea di Milano si leggono da giorni con rinnovata intensità dichiarazioni di quasi tutti gli attori cittadini, coinvolti di fatto o per propria scelta. A differenza del caso newyorkese, la discussione non riguarda la localizzazione in prossimità di Ground Zero di un progetto già pronto e pagato, ma in alcuni casi persino la stessa opportunità che una nuova moschea esista. Oggi sul Foglio Maurizio Crippa prova a fare il punto con maggiore equilibrio e gli elementi concreti.
La moschea di Milano è una questione religiosa e culturale cruciale, e allo stesso tempo un tormentone politico infinito. Anche perché la materia è complessa. Innanzitutto il nome. A Milano di moschea c’è n’è solo una, in via Meda, in cui si radunano gli islamici moderati del Coreis. Un’altra è nel comune di Segrate; sono le poche d’Italia, con Roma e Catania. I nomi noti di viale Jenner, via Quaranta o via Padova corrispondono ufficialmente a Centri culturali islamici nei cui locali – capannoni o scantinati malandati e insufficienti, in precarie condizioni igieniche – si ritrova per la preghiera del venerdì parte della popolazione musulmana cittadina (centomila persone). Una parte sola: il 3 per cento secondo De Corato, il 10-20 secondo altre fonti, perché non tutti gli islamici, a partire dalle donne, li frequenta.
Il problema dell’insufficienza dei luoghi di culto è però concreta e si materializza ogni venerdì, tant’è che anche quest’anno la grande preghiera di fine Ramadan si svolgerà nel tendone del teatro Ciak. Ne conseguono problemi di viabilità, ordine pubblico. Per non parlare del portato politico di queste situazioni non regolate.
Riccardo De Corato è il vicesindaco di Milano, che ha proposto persino un referendum sulla costruzione di una nuova moschea. Crippa spiega quali sono le questioni in ballo.
La diocesi si è sempre espressa per la soluzione, in spirito di dialogo, di quello che ritiene innanzitutto un problema “pastorale” e anche per prevenire un deterioramento delle situazioni sociali: se ne occupa il Servizio diocesano per l’ecumenismo e il dialogo, retto da monsignor Gianfranco Bottoni, all’insegna dell’“offrire ai fedeli della nostra stessa fede l’esempio e l’esperienza di sincere amicizie e proficue cooperazioni”. Inoltre, c’è la preoccupazione per la salvaguardia del principio di libertà religiosa. Non a caso il professor Paolo Branca, docente di arabo alla Cattolica ed esperto di relazioni tra le due religioni, boccia in toto l’idea del referendum: “Inconcepibile voler sottoporre a referendum un diritto costituzionale”. Ciò che però, secondo i critici, sfugge nelle posizioni della diocesi è che la mancata soluzione del problema non deriva solo da cattiva volontà, o peggio, della politica. Il vero motivo vero per cui né il Comune né il ministro dell’Interno – che nel frattempo ha istituito un Comitato per l’islam italiano, una cui commissione si occupa proprio delle moschee – intervengono è che i gruppi dirigenti delle comunità islamiche a Milano non rappresentano un interlocutore affidabile in materia di legalità, sicurezza, messaggi veicolati ed eventuali infiltrazioni fondamentaliste. La questione non è solo se esiste il diritto di culto – esiste – o se esista un problema logistico – esiste pure quello – ma di avere una controparte con cui stabilire le regole. Anche questo dovrebbe essere ricordato dalla chiesa, quando muove le sue critiche.
Insomma, non si parla solo di avere o no un luogo dove pregare, e finita lì. Le implicazioni sono molte, e anche i dettagli di uso della moschea indicano atteggiamenti e opportunità diverse nei confronti della convivenza e della sicurezza di tutti.
Spiega ad esempio Martino Pillitteri, coordinatore di Yalla Italia, la rivista dei giovani islamici di seconda generazione: “In via Quaranta non vanno i giovani: perché hanno tagliato con l’islam tradizionale ed etnico che vedono e sentono lì. E non ci va nemmeno quella fascia di musulmani moderati, integrati che non ama mescolarsi in ambienti, pure brutti e maltenuti di quel tipo”. E’ per questo che una moschea, masgari bella, sarebbe importante, per Pillitteri: “Potrebbe contribuire a rompere quel mondo chiuso”. Ma aggiunge, occorre “una serie di prerequisiti, tra cui che le prediche del venerdì siano riprese e trasmesse sottotitolate in Internet”. E a chi obietta che questo è un atteggiamento discriminante? “Rispondo che questo islam costituisce di fatto un’eccezione, e come tale va trattato”.